Commento al Vangelo
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Domenica 28 giugno, commento di don Renato De Zan

“Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me"

Parole chiave: Vangelo (126), Diocesi (190), Pordenone (793), De Zan (47)
Domenica 28 giugno, commento di don Renato De Zan

 

Mt 10,37-42

In quel tempo disse Gesù ai suoi apostoli: “Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

 

Amore, discepolato e accoglienza

 

Tematica liturgica

Nella Chiesa nascente c’erano due forme essenziali di annunciare la fede in Cristo Risorto. La prima era chiamata kerygma (dal verbo greco “kerysso”, che significa “annunciare”). Veniva adoperata per porgere la verità della morte e della risurrezione di Gesù a chi non era ancora cristiano. La seconda forma era la didaché (dal verbo greco “didasko”, che significa “insegnare”). Veniva adoperata quando il messaggio era rivolto a chi era già cristiano e serviva ad approfondire questo o quell’aspetto della fede e anche questo o quell’aspetto del comportamento morale. La dinamica della didaché avveniva più o meno così. Durante un momento in cui la comunità era raccolta (prima, durante o dopo una celebrazione liturgica?), qualcuno esprimeva agli apostoli, o a chi per loro, i dubbi, le perplessità, le domande (personali o collettive) che potevano sorgere da una fede bisognosa ancora di crescere e, probabilmente, in difficoltà di fronte alle situazioni concrete della vita. L'apostolo, o chi per lui, che aveva conosciuto Gesù fin dalla predicazione del Battista e che aveva vissuto con Lui fino all'Ascensione, non faceva molti ragionamenti, ma cercava nella sua memoria episodi o frasi di Gesù da cui dedure la soluzione a quanto richiesto. La storia della formazione del testo di Mt 10,37-42 ha questa origine. Alle spalle del brano ci sono le domande che vanno ricostruite attraverso il brano (he contiene “risposte”). La prima domanda potrebbe essere così riassunta: quale può essere l’amore più grande, quello verso i propri cari o verso il Maestro? La seconda, invece, riguarda il vicino pagano: il pagano che aiuta il cristiano che ricompensa ha? L’apostolo o chi per lui, riprende della parole di Gesù, dette forse in occasioni diverse, le raggruppa e costruisce la risposta. Nella risposta viene adoperato il classico linguaggio semitico di tipo sapienziale: tagliente come una lama, drastico, poverissimo di sfumature, dove esistono il bianco e i nero, ma non il grigio.

La Liturgia accosta al brano evangelico di  Mt 10,37-42, il testo veterotestamentario di 2 Re 8-11.14-16a (1° lettura). Questa associazione di testi mette in evidenza il tema fondamentale del brano evangelico: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è profeta, avrà la ricompensa del profeta…”. La donna di Sunèm accoglie Eliseo come  uomo di Dio e tale accoglienza non resta senza un ricompensa. La donna viene ripagata con la maternità. Il Siracide aveva riassunto questo concetto in modo magistrale: “Da’ all’Altissimo in base al dono da lui ricevuto, da’ di buon animo secondo la tua possibilità, perché il Signore è uno che ripaga e sette volte ti restituirà” (Sir 35,9-10). Dio, infatti, è generoso nel restituire ciò che si dona a Lui. Ne consegue che coloro che accolgono il discepolo di Gesù, avranno la ricompensa del discepolo, del profeta e del giusto.

 

Dimensione letteraria

Al testo evangelico originale la Liturgia ha aggiunto l’incipit: “In quel tempo disse Gesù ai suoi apostoli…”. Il brano di Mt 10,37-42 è la parte conclusiva del discorso apostolico di Gesù (Mt 10,1-42). La pericope biblico-liturgica è caratterizzata dalla ripetizione del pronome relativo “chi” (nove volte). L’espressione “non è degno di me” raggruppa le prime tre frasi relative (Madre-padre / figlio-figlia/ croce), mentre il verbo “perdere” coagula le due frasi relative successive (perdere la vita). Ci sono poi, tra frasi associate dal verbo “accogliere” (voi-me-il Padre / il profeta / il giusto). Infine, a se stante, ma debolmente associato all’accoglienza del profeta e del giusto attraverso il tema della “ricompensa”, c’è il dono del bicchiere d’acqua al cristiano.

 

Riflessione biblico-liturgica

a. La forma letteraria italiana “chi” (frase relativa), nasconde il greco dove c’è una frase participiale (Chi ama padre o madre… = l’amante padre o madre…. ): Dopo il participio, c’è la soluzione del caso: “non è degno di me”. Si tratta di una forma giuridica chiamata legge participiale (participio che presenta il caso + soluzione del caso). L’amore per Cristo e l’accoglienza della croce (rimanere solo, abbandonato da tutti, non capito, sofferente, ingiustamente accusato e condannato, ucciso perché cristiano, ecc.) sono due “leggi” fondamentali del cristiano.

b. Il premio che deriva dall’accoglienza è stabilito da Gesù, non dall’uomo. Gesù associa al profeta e al giusto anche il proprio discepolo. Mentre il profeta e il giusto sono “accolti” dal credente, il bicchiere d’acqua (gesto di accoglienza minimo) al cristiano è dato da chiunque, anche dal pagano. E anche il pagano avrà la sua ricompensa.

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