Commento al Vangelo
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Domenico 28 aprile: commento di don Renato De Zan

Il discepolo, purificato dalla parola, porta più frutto

Domenico 28 aprile: commento di don Renato De Zan

Gv 15,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 1 «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

 

Il discepolo, purificato dalla parola, porta più frutto

 

Il Testo

 

1. Nel lungo discorso di Gesù nell’ultima cena (Gv 13,31-17,26), c’è una parte dedicata all’immagine di Gesù “vera vite”. La pericope si estende per parecchi versetti (Gv 15,1-17). Da questo testo viene ricavato il brano evangelico odierno (Gv 15,1-8). La Liturgia attraverso l’incipit fornisce al lettore l’identità del mittente e dei destinatari: “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli”. Non ha voluto offrire nessun elemento per collocare la formula evangelica nell’ultima cena.

 

2. La formula di Gv 15,1-8 è caratterizzata dalla ripetizione dell’espressione: “Io sono la (vera) vite” (Gv 15,1.5). Tale espressione suddivide il testo in due unità letterarie ben distinte. Nella prima (Gv 15,1-4) sono protagonisti Gesù, la vera vite, il Padre che svolge il ruolo dell’agricoltore, e i tralci. Nella seconda unità letteraria (Gv 15,5-8) il lettore è accompagnato verso il punto omega: diventare discepoli di Gesù.

 

3. In ambedue le unità letterarie si trova il tema del “portare frutto” e del “rimanere in Gesù”. Mentre nella prima unità il “portar frutto” è intimamente legato al tema della purificazione attraverso la Parola, nella seconda unità letteraria il tema del “portar frutto” è strettamente legato al tema del “rimanere in Gesù” (tema già annunciato alla fine della prima unità).

 

L’Esegesi

 

1. Gesù definisce se stesso come la “vite vera”. L’aggettivo “alethinòs” significa senz’altro “vero”, ma in bocca a Gesù prende un significato più profondo. Egli è la “luce vera” (Gv 1,9), è il “pane vero” (Gv 6,32). Dio è “vero” (Gv 7,28; 17,3). Il giudizio di Gesù è “vero” (Gv 8,16). Esaminando i vari brani ci si accorge che per Gesù “alethinòs” significa “autentico, unico, senza paragoni”.

 

2. Nella prima unità letteraria c’è un equivoco nella traduzione che impedisce una retta comprensione del brano. La traduzione italiana dice: “Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Il verbo “potare” ha spinto nel passato a certe considerazioni fuori luogo: poiché la potatura fa “lacrimare” il tralcio, il brano indica che il Padre fa passare attraverso la sofferenza i suoi fedeli perché portino “più frutto”. Non è proprio così. Il testo originale greco non ha il verbo “potare”, ma il verbo “kathàiro” che significa “purificare”. Tale “purificazione” viene spiegata da Gesù: “Voi siete già puri - katharòi -, a causa della parola che vi ho annunciato”. Il credente, dunque, viene purificato dal Padre attraverso la Parola di Gesù.

 

3. Nel pensiero biblico, la vite era simbolo della pace e della felicità terrena. La distruzione della vite era segno di una calamità disastrosa (cf Sal 80,8-16; Ez 19,10-14). La presenza della vite e il suo frutto, invece, erano segno della benevolenza di Dio verso il suo popolo. Nella teologia profetica il simbolo della vite (pace e felicità terrena) era stato fatto scivolare a simbolo della felicità e della pace escatologica. Gesù, perciò, autodefinendosi “la vite vera”, intendeva chiaramente presentare se stesso come la vera pace, la vera felicità e la benedizione divina per l’uomo in questo mondo e di essere - nella storia - anche l’anticipo delle realtà future.

 

4. Rimanere uniti a Gesù significa diventare capaci di portare frutto. Rimanere uniti a Lui equivale a far rimanere in noi le sue parole (“rimanete in me e le mie parole rimangono in voi”). Portare frutto equivale ad essere suoi discepoli (“In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”) e ciò corrisponde ad essere quella “umanità nuova” che porta “frutti di santità e di pace” (Colletta propria).

 

5. Essere discepoli significa essere in cammino per diventare come Lui. Questo equivale a “glorificare il Padre”. Chi non rimane in Cristo? Colui che non porta frutto (non crede in Cristo e non è suo discepolo). Stando alla teologia giovannea sembra che si tratti dell’apostata e di colui che commette il peccato per la morte (cf 1Gv 5,16). Costui  non è considerato vivo e perciò il Padre lo taglia e lo getta nel fuoco (Gv 15,6). Per evitare questo, è necessario per l’uomo ritornare ad accogliere la Parola di Gesù perché questa è “spirito e vita” (cf Gv 6,6).

 

Il Contesto Liturgico

 

1. La prima lettura (At 9,26-31) viene brevemente tratteggiata la figura di Paolo, tralcio purificato da Cristo che porta molto frutto (predicazione missionaria). La seconda lettura (1Gv 3,18-24), semplificando, illustra che cosa significa essere discepoli di Gesù: credere in Lui e amarsi gli uni gli altri (v. 23). Anche la colletta generale ritorna sul tema dei “frutti abbondanti” che i battezzati possono portare con il “paterno aiuto” di Dio. La Colletta propria sottolinea il secondo comandamento di Gesù, illustrato dalla prima lettera di Giovanni (amarsi gli uni gli altri). L’obiettivo è diventare primizie di un’umanità nuova.

 

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