L'Editoriale
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Morire per un capello

In Iran le donne per un capello fuori posto rischiano non solo la rieducazione e il carcere ma anche la morte: la cronaca purtroppo lo ha di recente confermato più volte a partire da quanto accaduto a  Mahsa Amini, 22 anni, arrestata per colpa di una ciocca ribelle e morta dopo tre giorni di coma a seguito della "rieducazione"

Parole chiave: Velo (2), Iran (9), Proteste (4), Donne (49)
Morire per un capello

Un capello sembra cosa da poco, ma in Iran le donne per un capello fuori posto rischiano non solo la rieducazione e il carcere ma anche la morte: la cronaca purtroppo lo ha di recente confermato più volte. Le donne sono controllate dalla polizia morale che le scruta – letteralmente – dalla testa ai piedi: dal velo posizionato correttamente a coprire tutta la chioma, all’abito abbondante per nascondere le forme del corpo. Una realtà a cui sottostanno da decenni - il codice per l’abbigliamento è stato introdotto nel 1979 con Khomeini - ma che le sta portando in piazza da quando Mahsa Amini, 22 anni, è stata arrestata per colpa di una ciocca ribelle.

I fatti: Mahsa è stata fermata mentre era in auto con suo fratello dalla polizia morale a motivo di una ciocca non coperta dal velo; è stata portata via per essere educata sull’uso corretto dell’hijab. Tempo previsto per la lezione un’ora, ma le cose sono andate tanto diversamente che è finita all’ospedale in coma e dopo tre giorni, il 16 settembre, è morta.

Elahe Mohammadi, la reporter che ha seguito e filmato il suo funerale è stata incarcerata ad Evin (luogo che Amnesty international ha più volte denunciato per le crudeltà compiute); medesima sorte per la giornalista Nilufar Hamedi che ha sollevato il caso Masha. E’ in cella Faezeh Hashemi, giovane attivista e figlia ribelle di Ali AkbarHashemi Rafsanjani, presidente dell’Iran dal 1989-97.

Le uccisioni, non si sono fermate con Masha. Dopo di lei la ventenne Hadis Najafi è stata uccisa con sei colpi sparati tra viso e petto. Era la ragazza con la coda: un video girato col telefonino la mostra senza velo mentre si lega i capelli biondi con l’elastico e si unisce ai manifestanti col suo chignon scomposto come tante ragazze portano anche da noi. Sono le sue ultime immagini e i suoi ultimi istanti di vita: colpa e punizione trasmesse in mondovisione.

Sono morte nelle proteste di piazza le ancora più giovani Sarina Esmailzadeh, 16 anni, uccisa a manganellate in testa nella piazza e Nika Shakarami, 17 anni e caschetto bicolore nero e biondo, il cui cadavere è stato ritrovato dieci giorni dopo e mostrato alla famiglia per pochi secondi e limitatamente al viso.

La beffa, giunta il 7 ottobre, sta nelle dichiarazioni dopo le indagini della polizia, secondo la quale Masha, la prima vittima, è morta per le conseguenze di un intervento subìto da bambina e il cranio fracassato di Sarina è la conseguenza del suo suicidio: si sarebbe gettata dalla finestra.

Adesso, un mese dopo la morte di Masha, centinaia di arresti dopo, oltre 130 persone uccise nelle manifestazioni di piazza, la protesta è uscita dai confini dell’Iran e si propaga con azioni di sostegno in vari paesi: dal Canada al Portogallo, dall’Irlanda all’Italia (anche a Pordenone e Portogruaro sabato 8 ottobre). Giovani ragazzi e ragazze di varie nazionalità scendono nelle piazze e si tagliano ciocche di capelli in solidarietà alle giovani iraniane.

Là dove non scendono in piazza, il taglio della ciocca è fatto in diretta social: sono migliaia di ciocche reali da migliaia di piazze virtuali che allo stesso modo stanno facendo il giro del mondo. Tra i più noti caroselli quello delle attrici e cantanti francesi trasmesso dai tg: capitanate da Juliette Binoche si sforbiciano i capelli sulla colonna sonora di una struggente Bella Ciao. Due fine settimana fa i calciatori della nazionale di calcio iraniana hanno mostrato solidarietà alle ragazze scendendo in campo, per l’inno precedente alla partita, con la casacca nera in segno di lutto.

La modella iraniana che vive in Italia da tre anni, Tareneh Ahmadi, ha postato su instagram un video in cui, lacrime agli occhi, bocca in una scomposta smorfia di pianto, armata di forbici aderisce al gesto di lutto delle sue connazionali e si taglia i lunghi capelli neri, lanciando il suo appello: “Mi hanno arrestata a 16 anni per il mio hijab e sono 44 anni che la mia gente protesta per la libertà. Ora basta. Non vi chiediamo né soldi né cibo. Abbiamo solo bisogno di essere sentiti. Vi prego, siate la nostra voce”. Lo siamo, ecco perché questa colonna è dedicata a tutte loro questa settimana: alle giovani che protestano, a quelle cui è stata spenta la voce, alle donne che non osano farlo e silenziosamente resistono e subiscono. Perché, se è vero che la radice della parola hijab significa “rendere invisibile”, ad occultare le loro vite già fin troppo soffocate non ci sia anche il nostro silenzio.

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