L'Editoriale
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Il dovere di dire

Una sola apparentemente lontana nel tempo e negli eventi (Giornata della memoria) ma vicina per troppe assonanze di opportunismo silenzioso, di indifferenza, di prevaricazione, di violenza ideologica e di genere. Di ieri ma ancora una storia, per tanti versi, di oggi.

Il dovere di dire

 

Una nascita cambia sempre le cose e cambia pure le scalette degli argomenti di cui scrivere, sovverte l’esistente e il pensato anche se è avvenuta tanti anni fa ad Auschwitz, il 13 gennaio 1945, due settimane prima della liberazione del campo. Fu una nascita clandestina, figlia di una violenza; una nascita miracolosa, visto il quando e il dove; una nascita che pare lontana e invece ci è straordinariamente vicina per la geografia, per l’imminente Giornata della Memoria (27 gennaio), ma soprattutto perché la vicenda racchiude, e schiude a noi, tante storture del mondo ancora attuali.

Restano invischiati ai pensieri alcuni particolari. Che siano solo due i nati italiani nel lager più famoso: il bambino non è più di questa terra, la bambina sì. Che la madre sia riuscita a nascondere la gravidanza a tutti, sopravvivendo - lei e la sua creatura - grazie al pane rubato agli appena morti e che abbia scelto di dare alla bambina il suo stesso nome, sperando che almeno una delle due "Aurelia Gregori" si salvasse. Che la bambina nata, per il fatto di non essere figlia di ebrea, sia stata graziata dal diventare bambola su cui giocare al tirassegno, secondo il macabro rito che troppi sopravvissuti hanno testimoniato. E, infine e soprattutto, che quella giovane Aurelia, madre per via degli stupri subìti nel corso dell’arresto e nei mesi di detenzione, sia stata una ragazza triestina. E questa scoperta fa sì che Auschwitz non sia mai sembrata tanto orribile e tanto vicina.

Leggendo questa piccola storia di oltre settanta anni fa (Corriere della Sera, 14 gennaio, autore Walter Veltroni), la grande Storia si è imposta sui fatti di questi giorni, pur densi di gravità ed emergenze: i morsi ancora troppo famelici della pandemia, un’Italia drammaticamente in bilico economicamente ed ora anche politicamente, un patrono dei giornalisti che scivolerà nell’ombra (24 gennaio, San Francesco di Sales), mentre i giornalisti continuano ad essere sotto l’attacco di chi vuole nascondere la polvere del mondo sotto il tappeto della convenienza e dell’opportunità. Ma neanche i nostri morti e i nostri guai sanno mettere a tacere una storia che denuncia i mali del mondo che non sanno trovare fine.

C’è l’odio cieco e ideologico: che arresta una ragazza che "non era né ebrea né antifascista, era una ragazza come tante" come racconta oggi la figlia. Una figlia che spezza il suo silenzio, figlio del silenzio della madre, circondato dal grande silenzio di una città intera, delle maestre che ebbe (quel certificato di nascita ad Auschwitz urlava la sua verità), come degli storici, dei giornalisti, dei funzionari, dei colpevoli: di tutti coloro che videro prima arrestare, poi torturare, infine partire da Trieste tante ragazze del litorale Adriatico.

A quel silenzio si somma lo sguardo altrove, come lo definisce dolorosamente la senatrice Liliana Segre, che restando inerme si fa complice di reati orrendi. E qui l’assonanza - per luoghi, violenze, indifferenza - va agli scartati del mondo di oggi che il mondo lascia annegare nel mare o gelare nei campi di stracci della rotta Balcanica, invisi nel nome di un’ideologia economica del successo a cuori che hanno perso la fratellanza che papa Francesco invoca.

E poi ancora c’è l’eterno sopruso degli uomini sulle donne, che non ha colore, non ha epoca e, purtroppo, pare non avere neppure fine.

Ecco: c’è tutto un coro di voci, dietro quel primo vagito di Aurelia. E questa non è che una storia rubata a chi l’ha saputa scovare e raccontare.

Ma la storia è così: non si inventa, si cerca e scrive, affinché sia raccontata e scritta ancora tante volte, cosicché nessuno mai - neanche noi adesso -, di lei come di tanti altre storie possiamo e potremo dire: "Non sapevamo".

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