L'Editoriale
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Da ogni lapide un appello di pace

Il Popolo dedica tanto spazio alla fine della prima guerra mondiale: non per retorica. Piuttosto per testimonianza di quanto nei paesi si è organizzato. Eventi che, ricordando la guerra, inneggiano alla pace. 

Parole chiave: Prima Guerra Mondiale (3), 4 novembre (5)
Da ogni lapide un appello di pace

  Cento anni fa finiva la prima guerra mondiale: qualcosa che la nostra comprensione può solo sfiorare. Ne danno un peso e un volto da una parte i numeri, dall’altra le parole di chi, sopravvissuto alla brutalità, scrisse. Ungaretti in primis, soldato con la penna in mano nel vicino Carso, ma non solo lui.
Furono cinque anni di conflitto - quattro per l’Italia dal 24 maggio 1915 al 4 novembre 1918 - in cui gli uomini furono chiamati a massacrarsi a vicenda nella guerra più spaventosa che l’umanità abbia conosciuto. Non perché esista una classifica delle guerre, ma perché si tradusse in un estenuante uomo contro uomo: disumano, obbediente, insensato. In quegli attacchi, combattuti palmo a palmo nella guerra di trincea, morirono circa 15 milioni di uomini. Se si contano anche le vittime per le malattie conseguenti, la stima cresce vertiginosamente fino a 65 milioni di vittime (quanto sono gli italiani oggi).
L’Italia, sui 35 milioni di abitanti di allora, perse 651mila militari (378mila in azioni di guerra, gli altri per malattie e postumi di ferite) e un milione di civili (590mila per fame e malnutrizione, 432mila per la spagnola).
I libri che parlano della Grande guerra sono tantissimi e diversi: ai testi storici si sommano diari, romanzi, poesie. Anche la cinematografia ha dato racconti memorabili. Immagini e parole che sembrano costituire un lungo appello affinché quella strage, che Benedetto XV definì inutile, non avesse a ripetersi. Invece vent’anni dopo - di nuovo a partire dall’Europa - il mondo si incendiò una seconda volta. È un appello ancora inascoltato: oggi le guerre in corso sono una settantina. L’Europa non ne è esente: lo confermano Cecenia, Daghestan, Ucraina, Nagorno Karabach.
Chi allora attraversò l’orrore sentì la necessità e il dovere di darne testimonianza. Ma i posteri lessero e leggono poco. Rischio in aumento ora che la traccia di storia è stata tolta dall’esame di maturità. Ora che latita quel concetto di fratelli che Ungaretti descrisse in scarne parole. Lo imparò nell’abominio della guerra e nelle trincee: fossati di morte, dove ogni ettaro conquistato si pagava con la vita di diecimila uomini. Lo descrisse nelle assurdità vissute: obbligarsi a vedere il nemico nel viso impaurito di un ragazzo biondo, vegliare un cadavere dal volto sfigurato che era compagno fino a pochi minuti prima. Istantanee che ben rendono l’orrore. Ma l’orrore si ripete.
La storia non è fatta solo dalle pagine di battaglie e schieramenti. Ci sono anche quelle che calano l’epopea dei discorsi nella fame, nel fango e nel freddo dei soldati e delle popolazioni. All’ingegner Gadda, autore di un Giornale di Guerra, bastò una sola ripetuta parola per descrivere la prigionia: fame. Eppure tali pagine, non sanno farsi strumento di comprensione neppure oggi, neppure per noi, quando abbiamo davanti chi guerra e fame vive, fugge, racconta.
Se Il Popolo riserva ampio spazio al centenario non è dunque per retorica d’occasione. Piuttosto per testimonianza di quanto nei paesi - da comuni, associazioni, enti, cori e compagnie - si è organizzato. Eventi che, ricordando la guerra, inneggiano alla pace. Sono volontà di omaggiare tante giovani vite stroncate, di svelare storie, restituire nomi e volti, liberare parole chiuse in lettere e archivi. È un unico sforzo comune, un monito che da ogni lapide si leva, ancor vivo, cent’anni dopo.

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