Anche Superman era un rifugiato
Da decenni Nazioni Unite e Chiesa cattolica hanno voluto accendere i riflettori sulla situazione delle persone rifugiate, la cui condizione oggi pesa come una gogna. Persone che nel mondo fuggono da guerre e persecuzioni, lasciando casa, affetti e tutto quanto disegnava la loro vita. Non sono numeri, ma persone con una storia. Anche se a questa parte del mondo paiono interessare di più le impronte digitali
Enea, Dante Alighieri, Rudolf Nureyev, Marlene Dietrich, Nadia Comaneci, Miriam Makeba, Joseph Conrad, Marc Chagall, Hanna Arendt e Freddie Mercury avevano una cosa in comune pur essendo persone delle più disparate epoche, provenienze, capacità. Hanno tutti vissuto la condizione che pesa oggi come una gogna: rifugiati. Persone che due grandi istituzioni hanno messo al centro.
Da una parte l’Onu che il 28 luglio 1951 ha istituito una Giornata internazionale loro dedicata. Ricorre ogni anno il 20 giugno, memoria della “Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati” firmata a Ginevra, ma festeggiata solo dal suo 50°, ovvero dal 2001.
Dall’altra parte la Chiesa, che si è mossa fin dal dicembre 1914, quando il neoeletto Papa Benedetto XV istituì la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato come segno di vicinanza alle migliaia di emigranti italiani che cercavano migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa, America, Australia. E che presto abbracciò anche i tantissimi profughi causati dall’orrore della Grande guerra. Giornata che Papa Francesco ha quest’anno spostato da gennaio a fine settembre. Tema: “Non si tratta solo di migranti”.
L’intento può dirsi condiviso: sensibilizzare sulla condizione di 70 milioni di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati che oggi nel mondo fuggono da guerre e persecuzioni, lasciando casa, affetti e tutto quanto disegnava la loro vita. L’invito pure: non di numeri ma di persone si tratta, ciascuna con una storia unica. Anche se a questa parte del mondo paiono interessare di più le impronte digitali.
Assolvono a questo scopo i nomi citati in apertura, che un libro dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) abbina a storie di oggi. Persone legate dalla medesima sorte: andarsene per salvare la propria vita e il proprio sogno. Leggerlo è un bel modo di mettersi alla prova: è tanto facile tifare per la fuga dell’artista russo Chagall o commuoversi per la vicenda della ginnasta romena Comaneci, quanto restare indifferenti di fronte alle vicende – tutte uguali ai nostri occhi – di chi oggi attraversa deserti, soffre privazioni, sopporta caldo e sporco; di chi ha galleggiato a stento nelle infinite ore nere del mare di notte.
Ragazzi venuti dall’inferno: come Mohamed Keita, dalla Costa D’Avorio: “La guerra che ho conosciuto io ha deciso di abitare la mia terra, prendersi mia madre e mio padre. Ha stabilito per me la fame e la sete, ha deciso che i miei piedi dovevano mettersi in viaggio, ha deciso che avrei dovuto per sempre fare i conti con la nostalgia”. O quella di Dagmawi Yimer dall’Etiopia che: “Ha attraversato un deserto, ha attraversato la sua paura e poi ha attraversato pure un mare intero… E il mare ha i denti di uno squalo, che fanno male”.
Anche il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, pakistana, ha scritto da poco il libro: “Siamo tutti profughi”. Lei lo è stata a undici anni. Ricordando che nel mondo milioni di persone vivono immerse nella guerra, ha ribadito: “Non ho lasciato la mia patria per mia volontà, per mia volontà ci sono tornata”. Perché non è facile essere migrante, perché chi arriva in un paese straniero si trova diverso da tutti, guardato come se fosse un extraterrestre. Il libro dell’Onu ha proprio questo titolo: “Anche Superman era un rifugiato”. E pure lui, per farsi stimare, ha avuto bisogno dei superpoteri.
Simonetta Venturin
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