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Viaggio nei libri /4 L'epidemia di Cecità di Saramago

Viaggio letterario: si continua con Saramago e la sua Cecità, ma la cecità raccontata da lui è quella del cuore di ogni essere umano quando non guarda che al proprio io

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Viaggio nei libri /4 L'epidemia di Cecità di Saramago

l viaggio tra i libri che parlano di malattie e contagi ci porta questa settimana in una città sconosciuta e in un’epoca non precisata ma per certo alla fine del secolo scorso.
Tutto inizia, come le storie fin qui raccontate, in sordina. Anzi con un caso bizzarro: una fila di auto ferme al semaforo rosso; scatta il verde ma l’anziano che è alla guida della prima non parte. Il nervosismo si fa subito concerto di clacson impazienti: il secondo della fila esce dall’auto, si avvicina a quella ferma e vede l’anziano chino sul volante con le mani agli occhi: "Sono cieco".
Questo è l’incipit di "Cecità" uno dei romanzi dello scrittore portoghese Josè Saramago (1922-2010, Nobel per la letteratura nel 1998), prolifico autore di storie che hanno sempre il merito di partire da un’idea folgorante e tanto assurda quanto capace di disegnare trame incredibili: la storia di un paese dove tutti si rifiutano di morire, quella dell’apertura di una crepa tra Francia e Spagna con quest’ultima che si trasforma in una zattera, o la vicenda di un uomo che assistendo ad un film scopre l’esistenza di un altro uomo esattamente uguale a lui.
La trama di "Cecità" è presto detta: in una città gli abitanti diventano ciechi ad uno ad uno. Dopo l’autista di cui si è detto toccherà al suo soccorritore, al suo medico (ironia della sorte un oculista) e ai pazienti di questo (ragazze, bambini strabici, altri uomini e relative consorti). E’ una cecità anomala, che immerge i malcapitati in un mondo bianco e lattiginoso e non nel buio profondo, ma la visione è comunque preclusa.
La malattia si dimostra contagiosissima: l’oculista colpito lo capisce subito e cerca di avvisare le autorità sanitarie dato che "si sarebbe potuta trasformare in una catastrofe nazionale" perché il male era "sconosciuto e altamente contagioso". Ma è consapevole che "un’epidemia di cecità non si è mai vista". E infatti lì per lì non viene creduto: qualche caso non fa un’epidemia.
E’ poi la velocità di propagazione a rendere palese il grave pericolo. E il medico viene preso e trascinato via insieme alla moglie: internati, messi in quarantena in un vecchio manicomio adattato allo scopo. Un grande edificio che si riempie in fretta di ciechi.
Quel che è anomalo è che una persona soltanto, tra quelle in quarantena, non è cieca: è la moglie del medico oculista. Ha finto di esserlo per non separsi dal marito, per restargli accanto e assisterlo, per avere occhi anche per lui. Chi diventa cieco all’improvviso non sa cavarsela.
Il manicomio degli internati è un mondo di ciechi tutti nuovi di zecca per questo la situazione degenera in fretta. I ciechi vagano, inciampano, sbagliano letto, diventano in pochi giorni sporchi e laceri, i locali si fanno immondi. La moglie vedente bada al marito, attenta solo a non farsi scoprire. Quanto agli altri, non c’è nessuno che si prenda cura di loro: l’esercito pattuglia l’edificio dall’esterno e da distante, per paura del contagio, pronto a sparare su chi cerca di uscire.
Abbandonati a se stessi - salvo che per la consegna del pasto quotidiano - l’abbruttimento che prima è solo fisico si fa in fretta anche morale.
Nel manicomio ci saranno ruberie e soprusi inauditi: prima per il cibo che una parte (i contagiati) sottrae all’altra (i già chiechi); poi per le donne, brutalmente violate.
A sbloccare la situazione l’intuito dell’unica vedente: il cibo non arriva più perché non c’è più chi lo porta. Rischiando la propria vita esplora l’esterno: l’evasione è possibile. Ma l’evasione non sarà una liberazione dai mali.
Senza proseguire con la trama che racconta intrecci sentimentali e svela la situazione della città, la metafora della cecità come chiusura sui bisogni degli altri è piuttosto palese: i colpiti da questa epidemia non riescono che pensare a se stessi e, per questo, si fanno egoisti fino alla brutalità più estrema. "Siamo regrediti all’orda primitiva" confesserà un vecchio, quella dei bisogni non dei sogni, quella delle necessità non dell’umanità sensibile, attenta, generosa, altruista.
La cecità raccontata da Saramago è quella del cuore di ogni essere umano quando non guarda che al proprio io, quando chiude gli occhi sui bisogni degli altri e del mondo, quando soddisfa le necessità più elementari, come lo stomaco e gli istinti, e perde i contatti con il suo spirito e la profondità del pensiero.
Per questo l’unica vedente confesserà al marito che la sua pena è stata maggiore: nessuno ha visto quello che è toccato vedere a lei, la degenerazione, l’immonda sporcizia, la brutalità, la cattiveria, la sofferenza e la morte. "Non sono regina - confesserà - sono soltanto colei che è nata per vedere l’orrore". Ma non cerca la fuga, nell’orrore resta con convinzione: "Io la responsabilità ce l’ho oggi... la responsabilità di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti". E al marito che obietta: "Non puoi guidare o dar da magiare a tutti i ciechi del mondo" lei rispondera "Aiuterò per quanto sarà nelle mie possibilità".
Certo, resta l’incomprensibile e inacettabile di tante persone colpite e di quelli che non sopravvivono. E quando la malattia inspiegabilmente se ne andrà da sola: "Perchè siamo diventati ciechi?" si chiederà uno dei protagonisti. Questa la risposta che ottiene: "Noi non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono, ciechi che pur vedendo non vedono".
Chissà se il coronavirus darà una vista migliore a ciascuno di noi.
Simonetta Venturin

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