Paolo Rumiz: Il veliero sul tetto
"In tempi normali - così comincia il libro - avere nostalgia di una quarantena è un lusso da spostati o da ricchi annoiati. Ma noi non viviamo tempi normali…
Rumiz scrive il suo libro a fine lockdown, ma proprio subito dopo. Il sottotitolo recita "Appunti per una clausura". E’ rimasto chiuso, ha sofferto in quello spazio ristretto, lui che ha camminato per mezzo mondo. Triestino doc, giornalista, autore di reportage, forse non ha mai respirato tanto a lungo dentro le pareti di casa, un appartamento dal quale vede almeno uno scorcio di mare.
Non può dire, però, che tutto sia stato inutile, tanto che arriva ad avere nostalgia di quel tempo. Una nostalgia così forte che a maggio, appena può uscire di casa, va a rifugiarsi in un altro luogo chiuso, in fuga dal mondo.
"In tempi normali - così comincia il libro - avere nostalgia di una quarantena è un lusso da spostati o da ricchi annoiati. Ma noi non viviamo tempi normali… Così sono scappato sull’isola di San Giorgio, a Venezia, dai miei benedettini. Di nuovo in clausura… Cercavo un posto così, un sensore del cambiamento, dove l’Invisibile non fosse bandito in nome di un’utopia tecnocratica e dove non trionfasse ancora la Materia a spese dell’Uomo". E lo dice lui che si autodefinisce un "laico di ferro".
Evidentemente la clausura, apparentemente ferma, apparentemente bloccante, ha lavorato. L’autore doveva rifermarsi per coglierne i frutti e condividerli: "In quel mirabile spazio claustrale, ho riletto la mia quarantena e ho capito meglio la svolta di consapevolezza che aveva innescato in me, regalandomi il viaggio forse più incredibile della mia vita".
Poi il diario ha inizio: dal 12 marzo, giorno per giorno, con la paura di un uomo di 72 anni che si sa "categoria a rischio".
Con la credenza che diventa "una cambusa", con la sola radio che lo fa sentire come in tempo di guerra quando radio Londra faceva il punto sull’avanzata del nemico come in quei mesi i bollettini quotidiani della protezione civile facevano la conta dei caduti del virus.
Il mondo è ai suoi occhi "un convoglio che si ferma", il sogno europeo "un edificio che crolla" e crollano con lui tante nostre presunte certezze.
Scopriamo la quarantena: un metodo antico quanto l’uomo per salvarsi da una malattia; ci facciamo scippare anche la cultura della morte con le vittime mai viste, mai salutate, anche mai sepolte (sparite in convogli o così hanno mostrato).
E’ in quei giorni più bui di fine marzo che "l’uomo avverte a sua nullità rispetto all’Immenso che lo circonda, ma al tempo stesso la sua centralità responsabile nel garantire la continuità del mondo". E da qui che comincia la svolta, da qui che Rumiz confessa: "Sto cambiando pelle".
Così, solo una settimana dopo, mentre fuori deflagrano virus e primavera, comincia a ringraziare: "Ringrazio per l’albero di Giuda che torna a fiorire, ringrazio per i miei vecchi e per i miei nipotini, ringrazio per la natura che esiste anche senza di noi, ringrazio per la meraviglia degli sguardi intensi, ringrazio per il pane appena sformato… ma soprattutto ringrazio per il silenzio ritrovato, un silenzio che è canto, preghiera e padre del Verbo Creatore. Silenzio che mi fa sentire la polifonia della natura e che mi strappa dalla tirannia dell’apparire".
Come si cammina talvolta stando fermi. Peccato dimenticarlo.
Intanto il diario continua tra una vita fuori (le liti tra paesi, tra politici, tra virologi… in una deterrima comparatio in cui si brilla per pochezza altrui) e la vita dentro che coglie gioie domestiche impensabili.
Pagine bellissime sono dedicate al 27 marzo e "alla mano calda di papa Francesco" solo in mezzo a piazza San Pietro, alle citazioni di libri e di alcuni loro passi che entrano in scena a soccorrere le ore del recluso: "Noli exire. In te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas" ricorda Sant’Agostino e Rumiz concorda. Assapora la contentezza del poco e gli sovviene quella di Etty Hillesum che al campo di sterminio sa commuoversi di fronte ad un gelsomino. E ricorda il Salmo: "Nella prosperità l’uomo non comprende" (salmo 49, v. 13).
Il 5 aprile è il giorno della svolta: in quella assolata e desolata domenica delle Palme scopre "di avere un veliero per uscire in mare quando voglio, in barba alla quarantena". Ha una tolda ampia anche se zeppa di cavi, camini e antenne: è il tetto del condominio… "Vecchio Dante perdonaci tutti per non aver capito. Cos’è il paradiso se non accontentarsi della luce e lasciarsi alle spalle la bramosia dell’inutile?". E non è forse questa anche la lezione che viene dal coronavirus?
Dal suo veliero vede i tonni nel mare, contempla la luna di notte ("che emerge come una montagna di neve"), respira il borino. La sua quarantena si ammanta "di un fascino claustrale" che sarà doloroso abbandonare.
Altro non diciamo: le pagine scorrono veloci tra citazioni di libri, brani di musica classica, vita domestica di cene intime e gioiose videochiamate ai nipoti: ognuna porta un dono che arricchisce l’animo. Ma il dono più grande è quel veliero sul tetto: più sale in alto, più va nel profondo di sé. E da lì farà sgorgare la sua preghiera laica.
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