"Mia nonna d'Armenia" l'unico diario sul genocidio degli armeni
Presentato al Vendramini dalla prof. Antonia Arslan, con l'autrice Anny Romand all'interno del programma di Aladura "Accogliere"
Potrebbe essere il più classico dei cliché per raccontare una storia passata: il ritrovamento di un vecchio diario appartenuto alla protagonista della vicenda. Invece è tutta verità: ricca perché i particolari sono stati raccontati alla nipote di otto anni da una nonna sopravvissuta al primo genocidio, quello armeno; tragica perché di eventi luttuosi e tremendi si narra; poetica perché non descritta nella cronologia e nella sequenza terribile dei crimini commessi contro gli armeni, ma filtrata dal linguaggio d’amore con cui la nonna, dentrice dell’esperienza, seppe condividerla con la sua interlocutrice e confidente bambina.
Il libro di Anny Roman, che è nato dal ritrovamento del diario della nonna Serpouhi - "Mia nonna d’Armenia" La Lepre edizioni con prefazione di Dacia Maraini - è stato presentato due volte a Pordenone grazie alla associazione Aladura di Stefano Bortolus: giovedì 18 e venerdì 19 novembre, sempre in Auditorium dell’Istituto Vendramini. Presente ad entrambe le conferenze anche la prof. Antonia Arslan, quale massima esperta italiana delle questioni armene che non solo la appassionano ma delle quali ha scritto per aver raccolto la testimoninaza dal nonno (vd. il libro "La masseria delle allodole").
DOCUMENTO
UNICO
Il libro nasce da un documento raro: l’unico diario scritto durante la deportazione degli armeni. O almeno l’unico che sia giunto fino a noi, tanto è vero che oggi è conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi e considerato "Il Diario di Anna Frank" armeno.
Il diario, che in realtà è un quadernetto di una settantina di pagine, scritto a matita, è stato ritrovato dall’autrice del libro "Mai nonna d’Armenia" solo nel 2014, in una scatola da scarpe insieme a qualche vecchia foto, in occasione del riordino della casa dello zio Jiraïr, figlio della nonna armena, deceduto a 98 anni.
Il quadernetto è apparso subito straordinario e, pur nella sua essenzialità, testimonia la ricchezza culturale di nonna Serpouhi che lo scrive alternando tre lingue diverse, lei che ne conosceva ben quattro (armeno, turco, greco e francese), per merito del padre ingegnere che aveva voluto far studiare tutti i suoi figli, maschi e femmine indistintamente.
All’epoca dei fatti Sephouri è una giovane donna di 22 anni, sposata, con un figlio di quattro anni Jiraïr e la piccola Aïda di soli sei mesi. Nonostante i trasferimenti forzati, le marce sotto ogni condizione atmosferica, i pericoli incorsi, i cambi di paese, i viaggi per terra e per mare, la giovane donna resterà aggrappata al suo quadernetto, conservandolo gelosamente e segretamente nelle traversie non facili della vita nuova in Francia. Lì vivrà miseramente, specie all’inizio, quindi si risposerà, avrà un’altra figlia (Rosette, la mamma di Anny), ma mai abbandonerà il suo diario, fedele confidente di quanto vissuto.
LA STORIA
DI SEPHOURI
Sephouri Hovaghian appartiene ad una famiglia borghese armena di Samsun, un porto turco sul Mar Nero. A quindici anni viene data in moglie a un ricco commerciante di tabacco di Trebisonda, Karnik. Ha quattro figli: un maschietto, due gemelli che però non sopravvivono e una femminuccia. Al momento in cui inizia il diario ("Una mattina del 1915, era di primavera...") il maschio ha quattro anni, la piccola ha sei mesi ed è ricoverata in ospedale. Fin dal primo giorno del racconto il marito di Sephouri viene trascinato via da casa e massacrato insieme agli altri maschi armeni. Le donne, invece, dovranno essere trasferite. lei ha la bambina in ospedale, la lasciano andare a trovarla.
Qualche giorno dopo arrivano i militari per portare via tutti i bambini, dicono che li porteranno "a scuola". Ma Sephouri è una ragazza intelligente: troppe cose strane accadono. A scuola dove? E poi il suo Jiraïr è troppo piccolo. Allora affida la sua bambina alla mamma di un altro piccolo ricoverato e pretende di andare insieme a suo figlio a vedere la scuola. I militari le fanno fare vari giri poi la chiudono in un grande capannone pieno di donne e bambini. Lei vuole tornare dalla sua neonata, urla... Tutto inutile: donne e bambini devono essere trasferiti.
La piccola Aïda non vedrà mai più la sua mamma: come hanno confermato i documenti del processo di Trebisonda del 1919 i piccoli ricoverati furono uccisi con latte avvelenato.
Poi, a piedi, donne e bambini vengono spinti a mettersi in marcia.
Come ha spiegato la prof. Antonia Arslan, se Sephouri si salvò fu in virtù della sua intelligenza: delle lingue conosciute, della conoscenza dei punti cardinali e della geografia che le permise di capire dove stavano portando quel corteo di donne sempre più lacere e affamate.
Così la protagonista del diario capisce che rimanere significa solo una cosa: morire. E lei non può permetterselo per un grande motivo: pur di salvarlo ha affidato il suo piccolo Jiraïr ad una donna turca, una nemica. Deve sopravvivere per tornare a cercarlo e riprenderlo. Di tutta la sua famiglia solo lui gli resta: morti i gemelli e la bambina, morto il marito, non restano che loro due e devono salvarsi.
Per riuscire nell’intento sa compiere atti oltremodo coraggiosi: scappa un paio di volte, si nasconde sotto un velo fingendosi turca, si fa scaltra per strappare un passaggio in nave ad un marinaio.
IL LIBRO
Ha il pregio della testimonianza storica ma anche quello di svelare un rapporto unico tra nonna e nipote. E’ scritto alternando pagine del diario ritrovato ai dialoghi della nonna con la nipote bambina, così che la verità c’è, ma è presentata in maniera adatta alla sua interlocutrice. Così, ad esempio, la nonna racconta di essere scappata da chi "la voleva baciare" per non gravare sulla piccola con lo svelamento delle tentate violenze.
Per questo, se pure la storia affonda nel primo genocidio della storia (di 2milioni di armeni, ne sopravvissero solo 500mila) sa poi ergersi salda ben nutrita da quello sconfinato amore che spesso lega nonni e nipoti.
Simonetta Venturin
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