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"L'apprendista" di Gian Mario Villalta: due sacrestani e il senso della vita

L'apprendista di cui scrive il direttore artistico di Pordenonelegge non impara il suo lavoro in una fabbrica del nordest, nè in un laboratorio artigianale.... L'apprendista, sui settanta, impara da un ottantenne. Cosa? L'arte e la sapienza del sacrestano... Ne parliamo con l'autorew, finalista al Premio Strega (2 luglio).

Parole chiave: Gian Mario Villalta (8), L'apprendista (1), Tiziano (3), Sacrestano (1), Pordenonelegge (167), Chiesa (61)
"L'apprendista" di Gian Mario Villalta: due sacrestani e il senso della vita

Scordatevi le fabbriche, i laboratori artigianali o le sartorie. L’apprendista di cui parla l’ultimo romanzo di Gian Mario Villalta, professore, scrittore e direttore artistico di Pordenonelegge non ha niente a che fare con tutto quello che il produttivo nordest richiama. L’apprendistato si svolge, infatti, in Chiesa, meglio tra chiesa e sacrestia.
L’apprendista è Tilio, il nonsol veterano è Fredi. Hanno sui settanta ed ottanta anni e vengono da due percorsi di vita opposti: il primo è stato un uomo curioso, in perenne ricerca d’altro; il secondo è stato l’uomo del dovere innanzitutto. Passano le giornate incontrandosi in chiesa, svolgendo varie incombenze come tenerla pulita, mettere le candele, togliere la cera, raccogliere l’elemosina durante le celebrazioni di don Livio o di don Luigi. Tra una messa e l’altra aspettano in sacrestia, nel maggio freddo dell’anno scorso, con la coperta sulle ginocchia e un termos di caffè corretto vodka che dura una giornata intera.
Il paese è certo uno dei nostri, quale di preciso non si sa ma, per certo la sua chiesa -come molte delle nostre -, vanta un’opera d’arte importante che attira comitive. Un Tiziano è un richiamo forte e forse è un’eco della grande mostra sul Pordenone da poco chiusa.
Confezionato con eleganza, gusto per l’introspezione e accuratezza di lingua e descrizioni, mano a mano che le pagine scorrono, apparentemente senza che grandi eventi si verifichino, i due personaggi si raccontano, si aprono a domande - specie di uno dei due - che l’ascolto del Vangelo, messa dopo messa, solleva. E’ l’Uomo che si è allontanato da Dio o è Dio che si è stancato dell’uomo? Perché il testo sacro parla di "sottomettersi" e non di seguire i suoi precetti? Come si può essere purificati dal sangue versato?
Domanda dopo domanda, racconto di vita dopo racconto di vita, i due con la lentezza degli anziani e la profondità dei saggi, pur da quella originalissima prospettiva, si dimostrano capaci di incarnare l’universalità dell’uomo e di chi legge. Non è diffcile ritrovarsi in un dubbio, un aspetto del carattere, un inciampo di vita. E forse l’apprendistato, cui si fa non diretto riferimento, è proprio quello di vivere.
Ne parliamo con l’autore che, superata la prima selezione un mese fa, vede il suo "L’apprendista" tra i dodici libri finalisti al premio Strega (finale il 2 luglio).

Da dove è venuta l’idea di ambientare un romanzo tra chiesa e sacrestia?
Mi piacerebbe saperlo! Una mattina, invece di continuare quello che stavo scrivendo (avevo iniziato, infatti, un altro romanzo) ho sentito l’urgenza di mettere sulla carta una voce, dentro un’atmosfera, un modo di sentire. L’atmosfera è diventata quella di una chiesa, mentre la voce di Tilio ha dato i contorni a una personalità. Subito dopo è arrivato Fredi. "Che coppia!", mi sono detto. Tutto è venuto fuori da quella situazione iniziale, dai personaggi, dal "passo" della scrittura. Però c’erano pensieri, osservazioni, percezioni che mi stavano in testa da tempo senza trovare una forma per poter essere espressi. E quella forma "teatrale" della prima parte del romanzo li ha accolti.
L’anno è per certo il 2019 (maggio freddo e piovoso, mondiali femminili di calcio) il paese no. Ma i nomi delle chiese e quel Flavia tessuti coincidono con Portogruaro. Che paese è?
Mi fa piacere che lei abbia individuato un "paesone" che potrebbe pure essere quello, anche se non è. Per "paesone" intendo un posto che ha caratteri cittadini e però conserva qualcosa del paese, soprattutto per i suoi abitanti anziani (ma anche per molto altro). Ho fatto in modo che potesse rievocare molte realtà, tra Veneto e Friuli, da Vittorio Veneto a Pordenone, per dirne alcuni, da Sacile a Oderzo. Ma mescolando le carte, perché mi interessa che si immagini qualcosa che si conosce, più di quanto abbia importanza indicare un luogo reale.
Il sacrestano: c’è una figura del suo paese o dell’infanzia che l’ha ispirata?
Uno della mia età, che è nato in un paesino (non un paesone) come Visinale di Pasiano come può non avere il ricordo di un sacrestano? Anzi due, anche quello di Prata, dove talvolta andavo in chiesa con il nonno. E poi ho fatto il chierichetto, per pochissimo tempo è vero, ma me lo ricordo.
Trattare il sacro: una scelta anacronistica o un bisogno dell’uomo? E’ un interrogarsi condiviso dall’autore?
La potenza del sacro viene da più lontano della nostra totalizzante razionalità attuale. E fa parte ancora della nostra esistenza. Neppure la scienza più intelligente lo nega, anzi, pone in evidenza quanto ci siano aspetti del nostro vivere che non si fondano su quella razionalità che pratichiamo. La scienza, la tecnologia, la modernità più recente e sempre più veloce hanno solo messo a distanza questi aspetti. Ma nella speranza, per esempio, che cosa c’è? Nello spontaneo rivolgersi a forze che stanno fuori di noi e che nessuno domina, non c’è ancora la preghiera?
C’è stata una ricerca/preparazione precisa riguardo i passi da citare?
Come notava lei all’inizio, ho seguito l’andamento del tempo, la stagione, giorno per giorno. E in ugual modo ho seguito l’anno liturgico. Nell’avvicendarsi delle letture dal Vangelo ho incontrato dei passi che parlavano di più di altri al mio personaggio. Le scelte sono avvenute in funzione di Tilio, non di una mia preferenza.
Vede, ci sono due diverse difficoltà, secondo me, nei confronti delle parole del Vangelo, una è che per molti di noi sono diventate abituali, e quindi quasi perdono lo straordinario impatto del loro ascolto letterale; non meno distanziante però è l’interpretazione mediata dalla cultura. Tilio si trova esposto senza averlo premeditato a una dose massiccia di Vangelo fino a che si viene a rompere l’incrostazione dell’abitudine… e poi risponde lui, soprattutto si fa delle domande.
"Come può l’uomo che di fronte a Dio non è niente farlo sparire, pensa Tilio… al massimo l’uomo può nascondersi, voltargli le spalle… E’ lui, è Dio che ha abbandonato l’uomo… L’uomo è stato il suo giocattolo e lui si è stufato". E’ uno delle tante domande aperte. Da cosa nascono e cosa manifestano: rabbia, timore, nostalgia del divino?
Sono parole di Tilio. Io potrei parlare di una teologia novecentesca della "distanza di Dio", ma sarei noioso e neppure all’altezza. Tilio percepisce questa distanza e vorrebbe comprenderla. Non per avere risposte, questo per lui (e anche per me) ha meno importanza, ma per capire da dove viene la domanda.
Il Vangelo come Cenerentola, gli ultimi che diventano i primi: lo spiega?
Andrebbe letta tutta la pagina. In poche parole: c’è una interpretazione consolante dei Vangeli, che vuole vedere un sovvertimento o un’inversione tra gli umili e i tronfi. Tilio non trova che sia giusta questa lettura "favolisitica" - per questo c’è il riferimento a Cenerentola - e per lui, invece, le parole del Vangelo sono ben diversamente sovversive, lo mettono di fronte alle sue più radicate ragioni e gli chiedono se valgono veramente.
Cos’è la letizia del cuore che più volte ritorna tra le pagine?
È sentire che la forza di quello che viviamo è più grande di ciò che spesso siamo indotti a pensare preferibile come soddisfazione dei nostri immediati desideri.
Ci sono dei passi toccanti sulla morte: ha pensato a qualcuno che porta in cuore mentre scriveva?
Ah, il tatto, tra i nostri sensi il più difficile da catturare! Lei dice "toccanti". E io rispondo: "Chi non è stato "toccato" dalla morte?". E diciamo "Ci tocca!", quando non possiamo fare altrimenti. Che strana espressione, a pensarci bene! Se qualcosa mi tocca, quello che sento è che a mia volta lo tocco, anche se non ne avevo intenzione. La morte ci tocca. E la risposta è: "Sì, ho pensato alle volte che mi ha toccato, a tutte, perché le morti che ci toccano di più ci accomunano nella morte (ma anche nella vita, in un certo senso, no?)".
La solitudine accomuna i due protagonisti. In quanto anziani o in quanto uomini?
La solitudine è una dimensione essenziale per l’uomo, che può assumere tante forme; a volte è un dono, quando è a sua volta una relazione con il mondo, o una condanna, se significa perdere ogni relazione.
"I giovani sono tutti belli oggi" scrivi. Inconfessabile incanto del professore?
Sì. Anno dopo anno trovo in quell’incanto parole di lode.
Simonetta Venturin

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