"Eravamo eroi. Oggi l’impressione è di non poter essere capiti. Ci sentiamo spesso soli"
La testimonianza di un’anestesista in un ospedale friulano
Raggiungiamo Silvia (nome di fantasia) al telefono la mattina presto, mentre sta andando al lavoro.
Silvia è un’anestesista che presta servizio in un ospedale friulano. Ma per quello che ci dice preferisce mantenere l’anonimato.
Piove e fa freddo. Non le migliori premesse per cominciare un’altra giornata in trincea in piena emergenza covid.
"E’ un disastro - esordisce -. Non so più cosa pensare. La situazione è drammatica. Ogni giorno arrivano pazienti messi peggio. I posti in terapia intensiva ormai sono finiti. Ogni giorno si combatte facendo un po’ di medicina da guerra: tanta gente non ce la fa, tanta gente viene ricoverata in terapia intensiva. Tanta gente non ce la fa in intensiva e così si liberano dei posti, che però vengono immediatamente riempiti. Viviamo alla giornata: speriamo che domani le cose possano andare meglio, ma i numeri e i ricoveri non ci dicono questo. Siamo avviliti perché vediamo tanta gente che se ne va".
Uno sfogo duro ma che rappresenta una situazione altrettanto difficile, fotografata con gli occhi di chi la vive quotidianamente, non ascoltata raccontata dai media.
Uno sfogo che vuole essere allo stesso tempo un appello e una denuncia.
"La situazione è veramente critica in ospedale - spiega -. Ma lo era già un mese fa. Mi è parso che a livello dirigenziale si sia temporeggiato. Ogni giorno i malati aumentavano, venivano aperti nuovi reparti che si riempivano ancor prima di essere aperti fisicamente. Ma la gente fuori - continua - tutte queste cose non le vedeva e così non se ne poteva rendere conto di come stessero le cose realmente. Figuriamoci: ci sono i negazionisti anche tra i pazienti ricoverati. La realtà è che ci siamo trovati a dover scegliere a chi dare un ventilatore e a chi no in base a una nostra valutazione delle chances".
Secondo Silvia questa seconda ondata è peggio della prima. In ospedale il personale è molto stanco. Non per il lavoro fisico. Quello non spaventa. Ma perché si fatica a vedere una luce infondo al tunnel.
"Prima che venissero imposte le restrizioni, uscivamo dall’ospedale e vedevamo la piazza piena di persone che facevano l’aperitivo. Noi già immaginavamo quanti sarebbero finiti da noi. Magari non gli stessi ragazzi, forse i loro genitori o i loro nonni. L’impressione è di vivere in un altro mondo e di non poter essere capiti dagli altri".
E poi è mancata, in questa seconda ondata, la solidarietà che si viveva in primavera. "Allora siamo stati additati come eroi - conclude -, era una esagerazione, ma ci dava forza. Oggi ci sentiamo spesso soli. Prima eravamo eroi, oggi per qualcuno non dovremmo nemmeno parlare perché infondo noi uno stipendio assicurato ce lo abbiamo e quindi non possiamo capire".
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