Un'altra Redipuglia
Un anno dopo e non ne siamo fuori: con tre milioni di italiani contagiati (oltre 124 milioni nel mondo) e 105 mila vittime (2,7 milioni nel mondo) il Covid resta necessariamente il tema e il pensiero di ogni giorno. Mentre un’altra Pasqua s’avvicina, la mente corre tra i binari di un ricordo ancora fresco e una speranza già stanca.
Un’altra
Redipuglia
Simonetta Venturin
Un anno dopo e non ne siamo fuori: con tre milioni di italiani contagiati (oltre 124 milioni nel mondo) e 105 mila vittime (2,7 milioni nel mondo) il Covid resta necessariamente il tema e il pensiero di ogni giorno. Così, mentre un’altra Pasqua s’avvicina, la mente corre tra i binari di un ricordo ancora fresco e una speranza già stanca.
Il ricordo va alla piazza vuota e grigia da cui Papa Francesco, esattamente un anno fa – il 27 marzo – sotto gli occhi impauriti di mezzo mondo lanciava la sua preghiera al Cielo e ricordava a noi che “Siamo tutti sulla stessa barca” chiamata Covid 19. Immagine della desolazione e dell’avvilimento in cui eravamo piombati, chiusi nelle case nel nostro primo lockdown. Ma, pur tra le paure per quel nuovo che assediava il mondo, sulle nostre finestre sbocciavano i sette colori di un arcobaleno atteso con la gioia e la fiducia dei bambini.
Oggi a fiaccare la speranza è il ritrovarsi a fare i conti con la prima Giornata in memoria delle vittime della pandemia (18 marzo), che ci ha trovati orfani di 103 mila persone. Un anno dopo siamo ancora in lockdown e ancora alle prese con un picco endemico (il terzo). Abbiamo tutti sulle spalle la stanchezza di una logorante attesa; nel cuore le ferite della malattia e il dolore lasciato da chi non c’è più; negli occhi le immagini di ospedali e terapie intensive, ieri come oggi in affanno e proprio a casa nostra, tra Friuli e Veneto.
L’unica nota di speranza viene, nel calendario di ciascuno, dal cerchietto rosso con cui potremo segnare il giorno del vaccino come un nuovo inizio.
Ma in tanta mestizia – ancor più dura per chi ha un lavoro che la pandemia blocca e chiude - non dobbiamo mai scordare che non siamo gli unici a soffrire e che, anzi, stiamo dalla parte del mondo che può meglio difendersi. Vale per le cure come per i vaccini, sul cui versante si sta scatenando un accaparramento assai poco nobile e alquanto miope.
Papa Francesco lo va ripetendo da Natale che i vaccini devono essere per tutti, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di interessi economici e ondate di egoismo. A gennaio si è alzata la voce del presidente della Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha parlato di “nazionalismo di vaccini”. Ai primi di marzo lo stesso ha ricordato che “delle 225 milioni di dosi di vaccino somministrate, la stragrande maggioranza si trova in una manciata di paesi ricchi e produttori essi stessi di vaccini, mentre la maggior parte dei paesi a reddito medio e basso guarda e aspetta”.
E’ un dato di fatto che i ricchi stanno meglio e, infatti, tra i paesi più vaccinati ci sono Israele (51% popolazione), Usa, Emirati Arabi, Cina, Regno Unito. L’Europa arranca nell’impresa ma non nelle prenotazioni, in linea con l’approccio che Ghebreyesus ha definito del “prima io”. Lo stesso per cui il Canada ha acquistato un numero di dosi tale da poter vaccinare cinque volte ogni suo cittadino; mentre Usa, Regno Unito, Europa, Cile sono – o saranno – al doppio delle dosi necessarie alla popolazione. Un accaparramento che oggi risulta non etico e domani si dimostrerà controproducente per il pianeta intero. Vaccinati compresi.
Il perché è presto detto: il mondo non funziona per scompartimenti stagni, anzi non ci si è mai spostati tanto e velocemente come nella nostra epoca. Persone non vaccinate – se saranno tante e riguarderanno continenti interi, come l’Africa, l’America Latina, parte dell’Asia – si muoveranno, povere e portatrici di virus e di varianti. Lo abbiamo visto accadere con la variante inglese, responsabile del picco in atto; sappiamo già di una variante brasiliana (capace di reinfettare chi è guarito dal Covid), di una sudafricana e dalla scorsa settimana pure di quella iraniana (primo caso a Padova) e nigeriana (a San Donà).
E’ inutile chiudersi nel castello se non si solleva il ponte levatoio. E se lo si solleva, non resta poi che l’autarchia. E’ però bene ricordare la sorte degli assediati di un tempo: morire di fame o di peste.
Papa Francesco ha un bel ricordare che “nessuno si salva da solo”. La difesa da una pandemia globale deve essere altrettanto globale e universale o servirà a poco: il vaccino che io faccio aiuta anche gli altri, il vaccino che io non faccio – o non posso fare - mette a rischio anche gli altri. Il virus colpisce il mondo intero? L’intero mondo deve poter alzare il proprio scudo protettivo costituito da uno dei vaccini che la scienza ha saputo escogitare.
Così, se pur è istintivo pensare di vaccinarsi quanto prima ed è doveroso e giusto che ciascuno Stato pensi a mettere in sicurezza i propri connazionali, è altrettanto giusto non fermarsi a questo e pensare anche agli altri. Al momento lo fanno alcune Fondazioni benefiche (Bill Gates in testa) che hanno acquistato e ceduto dosi a paesi a basso reddito e lo ha fatto l’Unione europea.
Non è facile, è ovvio. Si tratta di aprire un altro fronte di spesa su una situazione già al limite. Ma proprio per questo bisogna farlo. Per ripartire: insieme e prima; per sperare in una vittoria contro il virus.
Ci sono paesi, come il Ghana e l’Africa subsahariana, che – se lasciati alle loro risorse - non potranno vaccinarsi fino al 2024. Una sciagura per tutti: più dura la pandemia, più le perdite saranno gravi, economiche e di persone. I tre milioni di morti nel mondo sono già troppi. Anche i nostri centomila sono già troppi. Avevamo già una Redipuglia, ci bastava.
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