Tra speranze e disillusioni
Una delle due tregue attese è arrivata: mentre in Ucraina ancora si combatte in Medioriente tra Israele e Libano le armi dovrebbero tacere fino al 27 gennaio prossimo, condizionale d’obbligo data l’instabilità della situazione. E’ una tregua della quale si sono fatti garanti americani e francesi, ma è una tregua subito infranta da episodi di combattimenti. E’ pure una tregua a denti stretti per Israele, mentre la Siria precipita nel caos degli estremisti islamici (foto AFP/Sir)
Una delle due tregue attese è arrivata: mentre in Ucraina ancora si combatte in Medioriente tra Israele e Libano le armi dovrebbero tacere fino al 27 gennaio prossimo, condizionale d’obbligo data l’instabilità della situazione. Quanto sia mostruosa la guerra e straordinario il suo cessare lo hanno dimostrato le scene dei libanesi in festa per le strade tra le sole cose rimaste in alcune zone: le macerie e il peso delle vite perdute. Un’esultanza spontanea quanto prematura: la distruzione regna, l’incertezza pure, i rientri saranno graduali e al momento non ancora possibili per chi vive nelle zone vicine alla linea blu di confine dalla quale gli israeliani dovrebbero ritirarsi entro i sessanta giorni pattuiti.
E’ una tregua della quale si sono fatti garanti americani e francesi, ma è una tregua subito infranta da episodi di combattimenti. Intanto gli sfollati aspettano e sono più di un milione, di cui la metà in Siria, nazione dove, dopo anni di stasi, lo scorso fine settimana gli jihadisti filo - turchi si sono riarmati e, vincendo le forze governative, sono rientrati ad Aleppo, in una situazione incertissima e violenta, che creerà altre distruzioni, altre persone in fuga, altri profughi.
E’ pure una tregua a denti stretti per Israele, insoddisfatto per non aver ottenuto la fascia cuscinetto sul confine libanese, senza la quale considera l’accordo possibile al cinquanta per cento, anche se poi è stato il Libano a denunciare le violazioni al cessate il fuoco proprio da parte di Israele stesso e presto ricambiate.
Se le armi sul fronte libanese avessero a tacere davvero, Israele si troverebbe impegnato sul solo fronte contro Hamas nella striscia di Gaza. L’inviato della Casa Bianca di Biden in Medioriente, Hocstein, artefice principale del cessate il fuoco raggiunto, ha sostenuto che questo è per Hamas il momento di pensare alle trattative, necessarie più che mai visti i 45mila morti e uno stato di distruzione altissimo: non tanto perché Netanyahu si dimostri disponibile a porre fine al conflitto – anzi, ha dichiarato che la guerra contro Hamas andrà avanti – quanto perché su di lui grava un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aia (Paesi Bassi) per crimini di guerra che ha già fatto sentire il suo peso contribuendo all’accettazione della tregua col Libano.
In un Medioriente sempre più incendiato e incendiario, l’Arabia Saudita ha manifestato la sua visione: non è possibile una pace senza il riconoscimento dello stato palestinese. E proprio il presidente palestinese Abu Mazen ha in calendario un imminente viaggio in Italia: il12 dicembre incontrerà papa Francesco - vicino alle sofferenze del popolo palestinese fino a definire genocidio quanto sta accadendo a Gaza -, il 13 incontrerà il presidente della Repubblica Mattarella e la premier Meloni.
La Palestina è una terra e un tema che scotta non solo riguardo a Gaza. A livello internazionale resta la questione stato indipendente o meno: le Nazioni Unite l’hanno riconosciuta nel 1947 ma lo stato che doveva nascere, tra una guerra e una pace con Israele, non è mai nato. I due vicini, bellicosi e difficilmente compatibili, condividono una terra che non trova accordi di spartizione e coabitazione. Nel ’47 l’Onu ne riconobbe il 45% alla Palestina, oggi la stessa – come dichiarato dal presidente Mazen in un’intervista ad Avvenire di sabato 30 novembre – reclama il diritto “di “vivere in pace e libertà solo nel 22%” ma questo diritto è negato.
L’altra questione per cui è all’ordine del giorno riguarda invece l’uso – proprio o improprio – del termine genocidio per definire quanto in atto Gaza. Il significato preciso della parola non fa propendere per un accostamento agli eventi in corso ma ciò non toglie l’abominio degli stessi e la comprensione del fatto che, data l’intensità e la disumanità di quanto inflitto, vi si faccia ricorso per indicare il sommo male possibile. La storia dirà se ci sia altro che oggi non si sa o non si vede (in Gaza non sono ammessi giornalisti), ma le vittime e le condizioni restano intollerabili e le morti vanno fermate. Poi, come in altre occasioni è accaduto, si darà ai fatti il nome che meritano.
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