L'Editoriale
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Maternità calpestata

Per due anni di fila il premio World Press Photo ha scelto una foto legata alla maternità con analoga motivazione: documentare l’umanità ferita dalla guerra. Da due anni l’umanità ferita sta in una maternità dolente, in una donna che piange il figlio perduto. E così che il più grande atto d’amore – dare la vita – viene stroncato dalla più grande barbarie che l’uomo ha inventato: la guerra (In foto: A Palestinian Woman Embraces the Body of Her Niece, Mohammed Salem, Palestine, Reuters - dal sito del Premio World Press Photo)

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Maternità calpestata

Maternità

calpestata

Simonetta Venturin

Quella di domenica 12 maggio è una festa della mamma turbata da un’immagine tragica e commovente che tanta realtà racchiude: quella della fotografia che ha vinto l’edizione 2024 del Premio World Press Photo (indetto fin dal 1955 da un’organizzazione indipendente e senza fine di lucro con sede ad Amsterdam). Definita “La pietà di Gaza”, ritrae una donna completamente avvolta in una veste azzurro-blu, china su un fagotto bianco: è una giovanissima nonna di 36 anni, Inas Abu Maamar, che stringe a sé la salma della nipotina Saly, 5 anni. Di nessuna si vede il volto: questa privazione di connotati facilita l’immedesimazione, permette a ciascuno di sentire quel dolore e di essere investito dall’orrida ingiustizia di un bambino ucciso dalla guerra degli adulti.

L’autore è un reporter della Reuters, Mohammed Salem, 39 anni, pure palestinese della striscia di Gaza, all’epoca dello scatto papà da pochi giorni: forse per questo, in quella foto di morte, ha saputo mettere tanta delicatezza e pudore attorno a un dolore che non esibisce strazio e sangue ma una compostezza paragonata alla Deposizione di Michelangelo. In entrambe una madre si china su un figlio perduto a causa di una violenza che non ha provocato, in entrambe c’è una vittima della prepotenza di un potere che si arroga vita e morte altrui. Il dolore della donna è grande: abbraccia la nipotina morta per il crollo della casa centrata da un missile israeliano, ma quel missile ha ucciso anche un’altra sorellina e la loro mamma.

La foto è stata scattata nell’obitorio dell’ospedale Nasser di Khan Younis, nella striscia di Gaza, il 17 ottobre 2023: dieci giorni dopo i violentissimi attacchi di Hamas ad Israele, che hanno causato oltre 1.200 vittime israeliane e la cattura di 240 ostaggi; ma è stata scattata anche a pochi giorni dalla sanguinaria risposta di Israele ad Hamas (ad oggi 33mila morti, di cui 11.500 bambini secondo Save The Children). La violenza genera violenza in una indecente escalation che non sa fermarsi nonostante gli sforzi internazionali per inventare, chiedere e trattare una tregua.

E siccome domenica 12 maggio è anche la Giornata delle Comunicazioni sociali vale la pena di ricordare il valore documentario del giornalismo - categoria cui anche i fotoreporter appartengono - usando le parole del vincitore: “Spero che questa immagine raggiunga il mondo intero e sia un motivo per fermare la guerra e mettere fine alla sofferenza che il nostro popolo palestinese sta vivendo”.

Sublimi nell’immagine vincitrice sono il contegno, l’atteggiamento raccolto, il sentimento racchiuso e la dignità dell’adulta: come a Maria anche a lei una spada sta trapassando il cuore. Quella madre senza volto è divenuta il simbolo di tutte le madri assurdamente trafitte dai destini rubati dei figli: se grandi chiamati a fare i soldati, se piccoli uccisi o rapiti da chi parla un’altra lingua o indossa una divisa diversa. Maternità calpestate dall’arroganza dei potenti.

Emblematico è poi il fatto che pure nel 2023 il Premio World Press Photo aveva scelto come rappresentativa dell’anno la foto di una maternità ferita. Era uno scatto realizzato in Ucraina, a Mariupol, il 9 marzo 2022, a quindici giorni dall’inizio dell’invasione russa. Ritraeva una giovane donna bionda che cinque uomini portavano via da uno sfondo di macerie, lei stesa su una barella con la mano a proteggere il ventre teso, pronto per il parto, i pantaloni insanguinati. Una delle donne ferite nell’attacco all’ospedale ostetrico: episodio che la Russia aveva prima definito fake news e poi, per bocca del Ministro Lavrov, un’operazione mirata a colpire i soldati ucraini lì nascosti, previa evacuazione delle pazienti. La realtà – la foto lo conferma – era un’altra: Irina Karina, 32 anni, la donna in barella, è stata ferita mentre era ricoverata in ospedale, non evacuato eppure colpito. Poco dopo lo scatto Irina aveva avuto il suo bambino, nato però morto: mezz’ora dopo lei lo ha raggiunto. Lo aveva chiamato Miron, che significa pace: l’hanno trovata entrambi ma non in terra.

L’autore de “L’assedio di Mariupol” è il fotografo ucraino Evgeniy Maloletka, che ha raccontato di essere arrivato solo un’ora prima del bombardamento dell’ospedale e, bloccato dallo scatenarsi dell’attacco sulla città, di esservi rimasto venti giorni, rifugiato nei sotterranei con medici e civili, documentando come si vive con la paura quotidiana della guerra e della morte.

Per due anni di fila questo premio internazionale ha scelto una foto legata alla maternità con analoga motivazione: documentare l’umanità ferita dalla guerra. Da due anni l’umanità ferita sta in una maternità dolente, in una donna che piange il figlio perduto. E così che il più grande atto d’amore – dare la vita – viene stroncato dalla più grande barbarie che l’uomo ha inventato: la guerra.

E dunque, anche per la mamma di Saly e per Irina, chi ha una mamma la festeggi con gioia, come se i nostri sorrisi potessero asciugare le troppe lacrime versate dalle madri del mondo.

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