A Pordenonelegge il 15 settembre Giuseppe Ragogna intervista don Dante Carraro (Cuamm)
Appuntamento alle 16.30 nello spazio di Largo San Giorgio con il libro: "Quello che possiamo imparare in Africa"
C'è tanta Africa nella vita di don Dante Carraro. Quella più povera, dove non va nessuno. In quelle terre batte il grande cuore di Medici con l’Africa - Cuamm, una ong che da oltre settant’anni lavora nella cooperazione sanitaria internazionale.
Don Dante, 63 anni, veneto della provincia di Venezia, è il direttore, un sacerdote globetrotter, con lo zainetto in spalla, che salta da un aereo all’altro per non far mancare gli abbracci e gli incoraggiamenti ai numerosi operatori e volontari impegnati nei tanti progetti in Tanzania, Uganda, Mozambico, Etiopia, Sud Sudan, Angola, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, in aree dove si sopravvive di stenti con qualche centinaio di dollari all’anno.
Don Dante sarà presente a Pordenonelegge, il 15 settembre alle 16.30, nello Spazio di Largo San Giorgio, con il libro "Quello che possiamo imparare in Africa", sottotitolo "La salute come bene comune", scritto con Paolo Di Paolo.
Dalla laurea in medicina, con specializzazione in cardiologia, al sacerdozio: com’è maturata la vocazione?
Nulla è stato semplice, né scontato, tra crisi e inquietudini, alla ricerca della mia vera identità. In mezzo c’era la frequentazione con una ragazza. Con lei stavo bene, ma non trovavo la completezza della vita. Non potevo trascinarmi in quel modo, precario e incerto. Un bel giorno decisi di affidarmi a quel Dio in cui credo, che mi ha portato alla riscoperta ancora più profonda della fede. Lungo il nuovo percorso ho trovato il modo di dare tutto a quel Dio della vita, in una dimensione attraverso cui il tutto diventava tutti.
Così lei ha cominciato a vedere l’Africa dappertutto, fino a tormentare il suo vescovo con le richieste di partire. La traiettoria di una vita movimentata l’ha trovata del Vangelo di Matteo: "Andate fino agli estremi confini della Terra". Però prima c’era da fare tanta gavetta: un po’ di parrocchia, un po’ di oratorio, un po’ di associazionismo. L’Africa è maturata pian piano a Padova, nel quartier generale del Cuamm, dov’era stato mandato a farsi le ossa, sino a diventare nel 2008 direttore dell’organizzazione. Come sono cominciate le missioni in Africa?
Prima missione in Mozambico nel 1995, in un Paese martoriato dalla guerra civile. Ne sono uscito stordito, con la sensazione di non aver capito nulla. Stavo però maturando il fascino dell’Africa, senza sapere ancora che cos’era. Avevo bisogno di una seconda prova, che è arrivata nell’anno successivo, in Etiopia, a Dobbo, nell’ospedale di una povera realtà rurale. Lì ho visto morire il primo bambino di malaria: era arrivato troppo tardi, per giunta malnutrito. In quelle condizioni disperate non c’era nulla da fare, perché il sistema immunitario non reagiva. Purtroppo, ho assistito ad altre morti: ancora malaria, tetano, persino per il parto. Via via ho capito che quella era la mia missione, sempre più coinvolgente".
L’Africa richiama l’attenzione alle disuguaglianze sociali. Profonde, ingiuste. In lei c’è l’impronta degli studi sui diritti umani. Com’è maturata la sua passione civile?
Alcune storie lontane sono rimaste incise nella mia coscienza. Ho letto e riletto i discorsi di Martin Luther King. Quello più famoso, "I have a dream", l’avrò ascoltato un centinaio di volte. Abbinava una tradizione di fede cristiana, che mi apparteneva, a un pensiero etico di giustizia sociale. Le letture adolescenziali avevano lasciato dentro di me una brace accesa, che poi è esplosa dirompente negli anni della maturità: le ingiustizie, i diritti umani, le discriminazioni razziali, la salute che non può essere un privilegio di pochi. Sono gli elementi della bussola che mi orienta nel lavoro.
Ricorre spesso nel suo libro il concetto di sporcarsi le mani con i gesti più semplici e più umili per vivere concretamente la realtà. Mi ha colpito un suo aneddoto, quando in Etiopia ha chiesto a un sacerdote del luogo come loro si organizzassero con i sacramenti. Mentre lei si soffermava sulle differenze, lui guardava per terra: stava osservando le sue scarpe, mentre lui indossava un paio di infradito e probabilmente aveva i piedi congelati. Scrive: "Mi sono sentito quasi ridicolo, vai a parlare di sacramenti quando c’è qualcosa di più urgente". Qual è la lezione?
Che dobbiamo stare più attenti ai bisogni primari delle persone, perché non si può esagerare con le astrazioni, altrimenti non si comprenderà mai la realtà in cui si è immersi. In tutti i campi: neanche la fede può essere sovrapposta alla vita, che è fatta di cose concrete. Bisogna partire da lì, dal basso, allora sì che si è credibili, in quanto si incrociano gli sguardi del prossimo sino a sentirne il cuore. Il confronto è con la vita vera, senza approcci ideologici.
Don Dante, a questo punto so di farle piacere calando l’asso del "con", carico di contenuti, inserito in Medici con l’Africa. Ha un significato ben diverso dal "per". Dentro quelle tre lettere dell’alfabeto c’è tanta roba. Che cosa in particolare?
"Dentro il "con" c’è lo stile della cooperazione, che comprende discrezione, umiltà, parità di rapporti. È importante stare attenti a non indossare i panni dei maestri, dei precettori che si inchinano sugli inferiori. Il nostro intento è quello di camminare insieme per la condivisione di un impegno comune che non sia però di toccata e fuga. La comunità va rispettata sempre, in modo da non tradirla perché i soldi finiscono. È da evitare la cooperazione dall’alto, quella fatta soltanto di documenti, magari elaborati seduti su comode poltrone. Non si può pensare esclusivamente al trasferimento di denaro con decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza, senza conoscere la realtà. I finanziamenti da soli non bastano: eccon quindi il "con" che significa la compromissione con la vita vera.
Lei si rammarica quando constata tanta insofferenza per l’Africa. Diffidenza se non cattiveria: c’è ancora tanto da lavorare per un cambio di mentalità?
L’Africa disturba perché sbatte in faccia problemi scomodi. Divide molto più del Crocifisso. Nell’immaginario collettivo le sue povertà mettono in discussione l’idea di onnipotenza di chi vive nel benessere. C’è la voglia di restare lontani, per non fare i conti con i nostri limiti. Ma l’Africa è anche altro, tante persone che lavorano per costruire dignità e umanità. Opportunità di comunità giovani, piene di energie e di futuro.
Quindi, che cosa le ha insegnato l’Africa?
Beh, intanto, la coscienza del limite, cioè imparare a fare con quello che si ha a disposizione. L’essenzialità favorisce la creatività, perché spinge a trovare comunque delle soluzioni. Il lamento continuo non porta a nulla, conta molto di più prendere l’ago e il filo per rammendare con un lavoro paziente. E ci aggiungo: con ostinazione. Nonostante le mille difficoltà, quelle comunità sono lì ogni giorno a costruire uno stato d’animo carico di ottimismo. Anche nelle situazioni più difficili spunta l’allegria, generatrice di una sana esplosione di vita. Nelle difficoltà gli africani trovano il sistema di andare avanti. Non è un caso che in Africa non ci sia posto per i musoni. Pur tra miserie e contraddizioni, in quei luoghi si riesce sempre a tirare fuori dignità, umanità, nobiltà d’animo, che sono qualità inversamente proporzionali al reddito.
Da un’epidemia all’altra: prima l’Ebola, poi il Covid. In Africa i vaccini non arrivano. Papa Francesco ripete in continuazione che siamo tutti nella stessa barca e sollecita più solidarietà. Oltre all’aspetto umanitario, una campagna massiccia di vaccinazioni sarebbe garanzia di sicurezza, se non altro per interrompere la diffusione del virus e delle sue varianti. È così?
I vaccini devono arrivare fino all’ultimo miglio, cioè nelle periferie e nei villaggi delle terre più povere, per questo abbiamo avviato una campagna di raccolta di fondi, se non altro come testimonianza. La pandemia sta dimostrando che il problema sanitario è globale: di tutti gli esseri umani, senza barriere.
È scandaloso che in Africa le vaccinazioni non raggiungano l’un per cento della popolazione. C’è la necessità di liberalizzare i brevetti e le tecnologie, per coinvolgere tutti i Paesi nella produzione, e di aumentare le dosi per evitare l’iniquità dell’accaparramento effettuato da alcuni Stati benestanti con quantità anche tre volte superiori alle reali necessità. Non ne usciremo mai in ordine sparso, ma soltanto insieme.
E adesso c’è il dramma dell’Afghanistan. Altri equilibri mondiali che saltano, allargando le aree di miseria. Paga sempre la povera gente. Quando si capirà che la democrazia non è una merce da esportare con le armi, ma un sistema di valori da condividere con il dialogo?
È fallito un sistema di esportazione di modelli con la forza. Un’operazione di vent’anni è stata spazzata via in neanche un mese, come polvere al vento, perché organizzata con metodi sbagliati. Una sberla paurosa!
Mi permetta di ribadire l’importanza fondamentale di quel "con" che vale per l’Africa, come per l’Afghanistan e altri Paesi martoriati. Significa che le comunità locali devono essere coinvolte per costruire qualcosa insieme, senza imposizioni. Abbiamo bisogno di più umanità".
Giuseppe Ragogna
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