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La Carta costituzionale e la presunzione d'innocenza

Dal 1° gennaio è in vigore la riforma della prescrizione. Cosa prevede

La Carta costituzionale e la presunzione d'innocenza

Premesso che la responsabilità penale è personale (articolo 27, I comma Costituzione), la nostra Costituzione sostiene che il cittadino imputato di un reato “non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (articolo 27, II comma). La ratio della norma è quella di riaffermare e garantire la scelta di tutela del singolo e della sua persona in un sistema civile e democratico. La presunzione d’innocenza, come regola di giudizio, nasce negli ordinamenti di tradizione anglosassone, nei quali la libertà personale dell’imputato è stata sempre così ben tutelata, che la garanzia della presunzione di non colpevolezza è sembrata superflua, mentre, come regola di trattamento dell’imputato, essa appartiene all’esperienza europeo – continentale che risale al pensiero illuminista e alla rivoluzione francese. Tuttavia, nei Paesi anglosassoni, è sancito che la presunzione di innocenza dura soltanto finché la colpevolezza del cittadino non sia legalmente accertata (condanna in primo grado). E i successivi “rimedi” sono considerati proprio tali: non cioè come parte costitutiva del giudizio, ma come possibilità di verifica di un errore giudiziario. Diversamente, nel nostro ordinamento giuridico, la presunzione di innocenza si atteggia come presunzione di non colpevolezza: si tratta di un principio sicuramente politico, ma che assurge a dignità costituzionale per rafforzare i valori della persona e i suoi inviolabili diritti. Il modello italiano di giudicatura, dominato da un “sano garantismo” starebbe, però, più in piedi se i diversi stadi del processo venissero percorsi con la massima rapidità e la sentenza definitiva arrivasse a ridosso della prima. Invece, tutti osserviamo quanto a lungo durino i processi. Questa “giustizia al rallentatore”, che certo risiede anche negli scarsi organici della Magistratura, consiste soprattutto nell’uso strumentale – da parte degli imputati, e dei loro difensori – proprio della garanzia del giudizio ordinato per molteplici gradi successivi. Così, si cerca di tirare in lungo la celebrazione dei processi, nella fondata convinzione che arrivando il più tardi possibile alla sentenza definitiva, questa sarà normalmente più favorevole all’imputato. Di sentenza in sentenza le pene, in genere, si riducono. L’opinione di alcuni costituzionalisti è che il secondo comma dell’articolo 27 della Carta, insieme con il terzo, (le pene finalizzate “alla rieducazione del condannato”), per il modo con il quale sono stati applicati, hanno svuotato il comma I: quello dove si afferma solennemente il carattere personale della responsabilità penale. Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale del 1988, si è iniziata una nuova fase nella storia del processo penale. Non più fondata prevalentemente sull’uso del rito inquisitorio, la giustizia penale ha recepito taluni dei criteri essenziali di quello accusatorio. Sennonché, nemmeno l’adozione dei principi basilari del metodo “accusatorio” è servita ad abbreviare la durata dei processi ma, perlomeno, ha rafforzato il rilievo della sentenza di primo grado. Tuttavia, ove le caratteristiche del caso concreto non rendano indispensabile il passaggio attraverso tutte le varie fasi della procedura ordinaria, il legislatore ha previsto dei riti alternativi, che riducono di molto i tempi del processo: il giudizio direttissimo (nel quale manca sia la fase delle indagini preliminari che quella dell’udienza preliminare), il giudizio immediato (nel quale manca l’udienza preliminare), il giudizio abbreviato e il patteggiamento (nei quali manca il dibattimento) e il procedimento per decreto (nel quale manca sia l’udienza preliminare che il dibattimento).
Le critiche alla declinazione italiana della presunzione di non colpevolezza sono essenzialmente di due tipi. Da un lato ci si lamenta che alcune prove di tipo confessorio siano così auto-evidenti che, rese in un sistema che oramai garantisce la libera autodeterminazione dell’imputato, dovrebbero avere già l’effetto di scardinare la presunzione, al di là del giudicato formale Dall’altro lato si obietta che talvolta esiti processuali non di merito, ma meramente di rito, ostino alla formazione di un giudicato di colpevolezza, cosa che però non dovrebbe impedire lo stigma sociale per il mancato reo. Un conto è che uno venga assolto perché le prove dimostrano che non c’entra. Un conto è che le prove vengano meno.
Pare che a complicare le cose sia arrivata la novità della riforma della prescrizione che è entrata in vigore il 1° gennaio 2020. Con riferimento ai fatti commessi a partire da tale data, il corso della prescrizione è bloccato dopo la sentenza (di condanna o di assoluzione) di primo grado o il decreto penale di condanna e fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o di irrevocabilità del decreto penale di condanna. Resta ferma, al contempo, la pregressa disciplina della prescrizione fino alla sentenza di primo grado. Per molti giuristi il blocco della prescrizione non basterà ad assicurare il legittimo andamento della giustizia e a salvare quanto stabilito in primo grado. Occorrerebbe anche rafforzare i riti alternativi, depenalizzare molti reati e aumentare le risorse. Si stima che lo stop della prescrizione metterà seriamente a rischio l’efficienza di molti uffici giudiziari, i quali si troveranno ad avere molti procedimenti in più ogni anno, e l’esito ovviamente sarà ancor più pesante sulle Corti, oberate da un maggior numero di prescrizioni, con l’alta possibilità che anche i tempi dei processi, già lunghi, ne risulterebbero più allungati. I dati diffusi dal Ministero della Giustizia nell’anno 2018, relativi all’anno 2017, evidenziano una durata del giudizio di primo grado oscillante tra i 535 giorni (in caso di rito monocratico) e i 707 giorni (in caso di rito collegiale) e un giudizio di appello della durata di 901 giorni. Per di più, la sospensione sine die della prescrizione dopo il primo grado di giudizio confliggerebbe con il volto costituzionale del sistema penale e con i principi che ispirano un ordinamento, come il nostro, a carattere personalistico, che assicura anche al reo i diritti e le libertà fondamentali della persona, garantendogli la possibilità di programmare la propria esistenza e sviluppare la propria persona. Bibliografia: fonti diverse

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