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Bibione, mercoledì 10 luglio: l'astronauta Paolo Nespoli, 313 giorni in orbita

In occasione della XVIII Festa di Avvenire e de Il Popolo special guest l'astronauta italiano Paolo Nespoli, intervistato dalla giornalista Lucia Bellaspiga (e sul cartaceo del settimanale diocesano intervista realizzata per il numero di domenica 7 luglio). Conosciamo l'uomo che è vissuto 313 giorni lontano dal pianeta Terra

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Bibione, mercoledì 10 luglio: l'astronauta Paolo Nespoli, 313 giorni in orbita

Racchiudere in poche righe la storia umana e professionale di Paolo Nespoli non è facile. E’ un astronauta che si impegna a ribadire di non essere un supereroe ma, come i supereroi, è volato nello spazio tante volte, anzi lo ha abitato per 313 giorni (in due diverse missioni sulla Stazione spaziale internazionale che viaggia a 28mila km all’ora). Per quasi un anno è stato, insieme all’equipaggio, uno degli uomini più lontani dal pianeta Terra.
Prima di essere un astronauta è stato un uomo dell’esercito italiano, paracadutista a Pisa e paracadutista incursore in Libano.
E prima ancora è stato un bambino incantato dai saltelli dei primi uomini sulla Luna a tal punto da sognare di fare lo stesso. Poi la convinzione che gli studi di ingegneria non fossero pane per i suoi denti lo ha fatto demordere. Ma la vita regala sorprese: anche bellissime. E nello spazio Nespoli è volato davvero. E, ora che non lo fa più, lo insegna agli astronauti di domani. Abbiamo parlato con lui per raccontarvi la sua straordinaria storia.

Nel libro "Dall’alto i problemi sembrano più piccoli" lei scrive che la terra vista dallo spazio comunica due cose: bellezza e fragilità. Ce ne parla?
Innanzitutto va detto che la Stazione spaziale internazionale viaggia a 28mila km orari, praticamente 8 km al secondo, ad una altezza di 400 km. Da lassù si perdono i dettagli - non vedo la casa di Roma o di Milano -, ma si coglie l’insieme come dalla Terra non ci è possibile. Così la Terra appare il quadro che l’artista ha dipinto, lo si coglie finalmente nella sua completezza, mentre dal pianeta si osservano solo porzioni. Come se osservassi un dipinto con il naso sulla tela: posso cogliere i minimi dettagli ma l’insieme sfugge. Sulla stazione spaziale si lavora parecchio, ma quando si stacca c’è del tempo a disposizione. Io salivo sulla cupola e guardare il panorama: in un’ora e mezza si vede un’alba e un tramonto, le nevi dei poli e le foreste amazzoniche. Viaggiando a 28mila km in un’ora e mezza si fa il giro della Terra e lo si fa 16 volte in 24 ore. Il concetto del tempo è relativo.
Lei ha descritto la Terra vista dallo spazio come "un vascello splendente che viaggia in un oceano di buio": deve essere una bellissima visione per ispirare tali parole.
Ho la passione della fotografia e dalla cupola nello spazio ne ho fatte tantissime di straordinarie anche se si ha solo un secondo o due per vedere e scattare. E’ una vista senza dettagli, una vista d’insieme. Questo fa perdere le piccole magagne e fa assumere al tutto un aspetto incredibile. Per esempio, l’Italia vista dallo spazio è molto bella, un’appendice d’Europa ma molto più vicina all’Africa. La Sicilia è vicinissima al continente africano e molto distante da Milano.
E la fragilità?
Devo chiarire che la fragilità che ho colto non è quella del pianeta ma della razza umana. La Terra ha 4,5 miliardi di anni, l’uomo è sulla Terra da circa 2-300mila. La Terra non è fragile in sé, lo siamo noi. La Terra resta, noi rischiamo di sparire, dato che abbiamo bisogno di precise condizioni per vivere. La fragilità e la nostra.
Le dico che sono appena tornato dagli Stati Uniti e volando sopra le foreste ho capito una cosa.
Quale?
Ho visto la distesa degli alberi e ho capito come le piante hanno colonizzato il pianeta (circa 450 milioni di anni fa ndr). Sono arrivate anch’esse dopo, non c’erano all’inizio. Ma sono qui da prima dell’uomo e sono fondamentali per la nostra vita, per l’ossigeno. Sono parte imprescindibile della vita, anche la nostra. Noi dovremmo impegnarci a capire quello che ci serve per vivere e dovremmo farlo ecologicamente. Invece abbiamo pretese di altro genere.
Lei scrive che se vedessimo la Terra dallo spazio "ci prodigheremmo nella ricerca di nuove fonti di energia alternative ecosostenibili". Stiamo prendendo sul serio il cambiamento cliamtico, facciamo abbastanza?
Più che altro credo che non abbiamo capito bene che fare. Abbiamo compreso che stiamo usando troppo, sfruttando, le risorse del pianeta. I tempi di recupero della Terrra sono lenti rispetto alla nostra fame di energia. Ma la Terra, con i suoi tempi, va avanti, siamo noi che non riusciamo a soddisfare le nostre esigenze: il calore del riscaldamento d’inverno, il fresco dell’aria condizionata d’estate. Si dovrebbe puntare a capire come integrare le nostre necessità con le risorse che il pianeta offre e come usarle senza danneggiarlo, perché danneggiarlo significa danneggiare noi stessi.
313 giorni nello spazio: quasi un anno della sua vita tra le stelle. Che bilancio fa?
La prima cosa che mi sono chiesto, rientrando dalla missione di sei mesi, è se ho impiegato bene il mio tempo: come uomo per la mia vita, ma soprattutto come astronauta per gli incarichi che avevo da portare avanti. L’astronauta nella Stazione spaziale esegue un programma che gli viene dato: studi, esperimenti, condotti per ampliare la conoscenza, affinché la razza umana possa progredire, imparare qualcosa da usare per il bene di tutti. Ho fatto esperimenti in campo medico, metallurgico, a 360° in varie materie. Come astronauta non devo interpretare i risultati: io conduco l’esperimento e comunico cosa accade. Comprendo la complessità di quanto sto facendo ma sono il braccio dello scienziato, non lo scienziato. Noi nella stazione spaziale rendiamo possibili alcuni esperimenti, siamo come metalmeccanici che fanno quanto devono. Ci mettiamo a disposione della Nasa ed eseguiamo: è un lavoro a servizio della conoscenza. E quando rientro valuto il mio operato e mi dico che questa finalità è una cosa buona per il progresso della razza umana.
Che cosa le manca di più dello spazio?
E’ così bello sentire la mancanza della forza di gravità, vivere in quella che correttamente si definisce micro gravità. Abituarsi non è facile, servono 4-6 settimane per capire come dormire (dentro un bozzolo legato per non galleggiare via e pure a testa in giù come pipistrelli), mangiare (liofilizzato o disidratato, termostabilizzato, irradiato, imbustato), assumere liquidi (le gocce che scappano volano per la navicella e si rincorrono a bocca aperta), rilasciare i liquidi corporei e recuperare l’acqua, lavarsi (niente doccia, solo salviette). Ma sovra ogni cosa c’è la questione di come muoversi. Non abbiamo idea di quanto pesi il nostro corpo: appena rientrato dallo spazio, dopo sei mesi in orbita, mi sono sentito come se mi si fosse seduto addosso un elefante e ho pensato: "Come farò a vivere così?". Mi sono sentito come Gulliver nella terra dei lillipuziani: steso a terra e legato da mille corde.
Se nella terra devo cambiare una lampadina sul soffitto, per prima cosa cerco una scala. Là, invece, salgo sul soffitto in un niente. Ma, al di là del pratico, è proprio la sensazione, la percezione della libertà ad essere massima. Pare di non avere il corpo. Non è tanto il galleggiare o fare capriole con un sospiro, è lo sperimentare come mai prima una straordinaria sensazione di libertà. Si dice che siamo corpo e anima, corpo e coscienza. Sulla terra il corpo è dominante.
E nello spazio allora come si percepisce la coscienza?
Rimane dominante ma mi è indefinibile. Ci vorrebbero filosofi e poeti nello spazio, loro saprebbero definirla meglio.
Ma sono necessari saperi troppo diversi da quelli in possesso di filosofi e poeti per andare nello spazio...
Io credo che nel futuro sarà possibile. Come per i voli: basta un pilota e tutti gli altri sono turisti, volano ma non sanno far volare l’aereo. Quando voleranno nello spazio filosofi e poeti sapranno dare risposte che io non so dare. Gli ingegneri come me hanno una visione del mondo troppo quadrata, serve una visione più rotonda per certe spiegazioni.
Le è mancata la passeggiata spaziale...
Non ho avuto l’occasione. Ma il nome andrebbe cambiato: niente di leggiadro come una passeggiata sulla terra. Da quando inizia la procedura di vestizione, si esce, si esegue quanto serve e si rientra passano almeno otto ore. E la tuta non è un indumento: è una mini navicella con dentro l’astronauta. Come girare con un frigorifero addosso.
Lei fa molti incontri con le scuole: i ragazzi vogliono ancora fare l’astronauta?
Quando ero ragazzino gli americani e i sovietici si sfidavano per andare sulla luna. Ai miei occhi erano esploratori che mettevano a rischio la loro vita per andare oltre l’ignoto. Ora va cambiando: si cerca di fare dello spazio uno spazio turistico. E il passeggero non è un esploratore.
Lei insiste molto, specie con i ragazzi, sul concetto di avere sogni importanti e di fare di tutto per avverarli...
I ragazzi devono sognare di fare cose grandi, anche impossibili. Del resto sognare il possibile non è sognare. Se sogni il possibile butti via un sogno. Bisogna sognare l’impossibile, cercare la strada difficile e percorrerla. E piano piano diventa prima possibile, poi diventa inevitabile. Ma per fare questo il cammino è lungo, servono tanti passi, dedizione, forza, perseveranza.
Lei ha detto che diventa inevitabile: quando lo è diventato per lei?
Ci è voluto tanto tempo. Ero diventato paracadutista incursore perché non mi ritenevo adatto a ingegneria. Solo a 27 anni, dopo l’esperienza del Libano, ho ripreso gli studi: ingegneria. Poi ci sono stati i concorsi per astronauta. Sono stato scelto molti anni dopo: a quel punto era diventato inevitabile farlo per davvero. E lì è arrivato il momento più difficle: non era finita la strada, ora avevo tutto da sperimentare.
La sua vita ha una trama da romanzo: lei aveva un sogno, l’astronata, e un libro sulle imprese spaziali ("Se il sole muore" di Oriana Fallaci). Li aveva chiusi entrambi in un cassetto come cosa impossibile. Poi una persona ha rimesso tutto in gioco e il sogno si è fatto realtà. Come chiama questo: destino, provvidenza, disegno?
Lo definirei quasi casuale. Ma cosa è il caso? Un’opportunità che vediamo? E se non la vediamo? Io stimavo una scrittrice allora famosa e ho avuto l’opportunità di conoscerla, lavorare con lei. Lo fabbrichiamo noi il caso o il caso arriva per caso? Non so. Però è stata lei, Oriana Fallaci, a chiedermi cosa volevo fare nella vita, anche se quello che stavo facendo al momento mi piaceva, lo ritenevo importante. Ero nell’esercito con un ruolo complesso. Le sue parole mi hanno colpito: così ho lasciato tutto per ricominciare, sapendo di avere lacune enormi. Ci ho messo dieci anni prima di avvicinarmi a realizzare il sogno.
Quanto è grande lo spazio visto dallo spazio?
Dipende dagli occhi: quella distesa nera può spaventarti, oppure dici: vedi quanta roba bella e incomprensibile. Io sto nel secondo caso.
Ma di fronte a quello spazio e a quella distesa qualche domanda non strettamente scientifica non viene?
Hai la sensazione che per quanto capiamo c’è tanto che non capiamo. Pensare che c’è qualcuno o qualcosa che ne sa più di te conforta; una forma che ha costruito queste cose e ne tiene il controllo. Io però in questo mi perdo, non trovo una risposta chiara.
Lei è credente?
Difficile rispondere. Da un lato mi sembra una bestialità dire che non lo sono. Sono cresciuto in un paesino tra chiesa e oratorio. Dall’altra sono molto razionale e la scienza a volte confligge. Come gli uomini sulla luna, saltello tra ciò che capisco e ciò che non capisco.
Simonetta Venturin

Bibione, mercoledì 10 luglio: l'astronauta Paolo Nespoli, 313 giorni in orbita
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