Legge basaglia 40 anni dopo
Nei giorni scorsi si è festeggiato il quarantennale della legge Basaglia, la legge dei folli, dei manicomi. Come persona che si occupa di salute e benessere psicologico delle persone e come consulente all’interno di una istituzione che da decenni accoglie uomini e donne che soffrono per aspetti legati alla vita ed alle relazioni, mi pare doveroso sottolineare l’importanza di quel che accadde attraverso quella legge.
Nei giorni scorsi si è festeggiato il quarantennale della legge Basaglia, la legge dei folli, dei manicomi. Come persona che si occupa di salute e benessere psicologico delle persone e come consulente all’interno di una istituzione che da decenni accoglie uomini e donne che soffrono per aspetti legati alla vita ed alle relazioni, mi pare doveroso sottolineare l’importanza di quel che accadde attraverso quella legge.
Accadde che un gruppo di psichiatri pensasse ad una legge che aprisse i manicomi. Per loro era necessario andare verso un ampliamento delle possibilità. Dobbiamo immaginare che i manicomi erano quasi dei paesi, delle realtà autonome, chiuse e riservate. Erano dei luoghi dove concentrare esistenze di confine (confinare esistenze), dove poter non vedere ciò che più impressiona la gente: l’esperienza comune ed umana della follia, del perdere i riferimenti, i confini appunto. Erano luoghi chiusi dove chiudere ciò che non poteva e non doveva essere aperto. I manicomi dovevano aprirsi per chiudersi davvero.
Accadde che da quel momento e per i successivi quarant’anni più di venti milioni di persone (dati della società italiana di psichiatria) potessero trovare delle cure diverse, potessero contare su un approccio alla sofferenza psichica che mettesse al centro l’umanità della persona e non il loro apparire bizzarro, incomprensibile ed alieno.
Accadde che i manicomi vennero definitivamente chiusi aprendosi all’esterno. Il primo ad essere chiuso fu quello di Pergine in Trentino Alto Adige. Il direttore era il dottor Giorgio Maria Ferlini. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, è stato il mio più grande maestro.
Accade che nel frattempo sono passati dei decenni e si sente il bisogno di ricordare il senso di alcuni avvenimenti. Oggi più che mai appare utile mantenere il contatto col senso profondo della cura dell’altro che è e deve essere "prendersi cura dell’altro". Prendersi cura di una persona non può che essere prendersi cura della mia umanità contenuta nell’altro.
Accade che oggi possiamo contare sull’esistenza di luoghi dove trovare qualcuno che ci ascolta e prova a comprenderci nelle nostre difficoltà per prendersi cura di noi. Ciò è possibile perché prima sono accadute delle altre cose, perché qualcuno si è impegnato a combattere, perché altri hanno pensato ed approfondito dei temi, perché altri ancora hanno messo a disposizione le loro vite per testimoniare una direzione.
Anche per queste ragioni è importante ricordare questo evento che sembra sempre riguardare qualcun’altro, non appartenerci come individui ma casomai come membri di una società. Ecco, non è così. Questo evento segna con forza l’inizio della possibilità e del diritto per tutti di poter essere guardati con uno sguardo che invece di inchiodare nell’ovvio della malattia apra alla cura dell’essere umano. Con riconoscenza.
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