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Quelli che ne hanno viste tante

Noi, gli over dai 70 in sù siamo stati tanti fin dalla nascita. Nonostante le traversie siamo ancora qui, magari ogni tanto ci facciamo un tagliando... e continuiamo

Parole chiave: Anziani (19), Vita (10), Costume (6)
Quelli che ne hanno viste tante

L’Italia invecchia. Lo dice l’Istat. Lo vediamo anche nei nostri paesi dove le nascite sono rare. In compenso sempre più numerosi siamo noi, gli anziani. Troppi per qualcuno che, non riuscendo a far quadrare i conti, ci taglia la pensione; ma, alla faccia di chi non ci vuole bene, noi campiamo ancora.
Noi, gli over dai 70 in sù siamo stati tanti fin dalla nascita. Siamo quelli del boom demografico, delle mamme decorate per aver dato tanti figli alla Patria ed ora battiamo i record di longevità anche grazie alla medicina che in questi decenni ha fatto passi da gigante. Con l’età siamo un po’ duri d’orecchio e cala la vista. Niente paura, ci mettiamo gli auricolari e le lenti a contatto, ci sistemiamo retine e cristallini, andiamo in palestra e torniamo alla seconda giovinezza.
A scanso di brutte sorprese ci misuriamo la pressione, esaminiamo regolarmente il sangue e le urine, mettiamo il pacemaker. Fratture di femori e menischi non si sistemano presto e il medico certifica che siamo seminuovi, ci fa il tagliando per un’altra ventina d’anni.
I nostri genitori e nonni, bravi se arrivavano a cinquanta, sessant’anni, hanno avuto una vita più breve e più faticosa.
Noi anziani ricordiamo bene quel mondo di gente semianalfabeta che zappava la terra e viveva all’ombra del campanile.
Ve lo immaginate un mondo con le case senza elettricità in cui l’unico riscaldamento era quello odoroso della stalla.
E noi, quelli di allora, siamo ancora qui a contarcela grazie agli incredibili progressi che ha fatto la medicina negli ultimi decenni.
La ricerca medica, le innovazioni in pneumo, cardio, chirurgo, farmaceutico e fisioterapico ha allungato di oltre vent’anni la vita media delle persone.
Era il 1936 quando il dottor Henry Jouvelet inventò l’attrezzatura e il metodo per la trasfusione del sangue. In pochi anni tutti gli ospedale si sono dotati di banche ematiche, in ogni paese sono nati gruppi volontari di donatori che hanno permesso lunghi interventi chirurgici che prima erano impensabili.
Tanti di noi sono ancora qui grazie al trattamento di emodialisi messo a punto da un’équipe medica di Seattle che ha ridato anni di vita a milioni di affetti da insufficienza renale. In molti casi prima il medico si arrendeva e i parenti chiamavano il prete.
E quanti vengono ancora alla festa della classe grazie all’oncologia che ha salvato molte coetanee da quelle brutte bestie dei tumori al seno e noi all’esofago, all’intestino, alla prostata via dicendo. Per qualsiasi frattura o slogatura finivi in ortopedia dove prima ti mettevano in trazione poi ti ingessavano per mesi.
Giusto cinquant’anni fa in un ospedale del Sudafrica sono stati sperimentati i primi trapianti di cuore ad opera del dottor Christian Barnard che da anni cercava di trovare un rimedio all’insufficienza cardiaca che fino ad allora era ritenuta un preludio della morte.
Per anni aveva sperimentato su animali, nuove tecniche di trapianto, con la difficoltà di mantenere vivo il cuore trapiantato, di innestarlo, di farlo ripartire evitando il pericolo del rigetto, il 2 dicembre 1967, fa il primo tentativo: asporta il cuore sano di Myril Denise, una ragazza di 25 anni, morta in un incidente, e lo trapianta nel petto di Louis Wahkar di 56 anni. L’intervento dura nove ore e alla fine il cuore riprende a battere. Un fatto incredibile per quei tempi. Purtroppo ci fu un fenomeno di rigetto e dopo due mesi Wahkar moriva, ma la notizia era che il cuore espiantato era rimasto vivo per oltre nove ore e poi era ripartito. Nei mesi successivi, nel 1968 il chirurgo fece altri trapianti. Tutti riusciti e i pazienti, dopo breve convalescenza, hanno ripreso la vita di prima.
Il dott. Barnard divenne famoso, venne più volte in Europa, fece cicli di conferenze, ricevette un sacco di premi. Poco per volta molti cardiochirurgi si specializzarono nella tecnica del trapianto e molta gente della mia generazione continua a viver con il cuore di un altro.
A memoria d’uomo non ci sono mai state classi tanto numerose e longeve. Prima di noi, la mortalità infantile riempiva i nostri cimiteri di "angioletti". Grazie a medici e levatrici le nostre classi ce l’hanno fatta. Le parrocchie hanno ampliato gli asili, i comuni hanno aperto nuove scuole elementari e medie. Allora eravamo un esercito. Siamo cresciuti a pane nutella e pallone. Siamo gli ex giovani che sognarono di cambiare il mondo al grido di "Largo ai giovani".
In seguito le cose sono andate come tutti sappiamo. In ogni caso noi siamo ancora qui, numerosi e longevi e chiediamo attenzione e rispetto a tutti. E allora... largo ai matusa. Matusalemme, ultracentenario patriarca biblico nel ’68 era l’emblema dei vecchi bacucchi. Ora sì che fanno largo a noi vecchiotti. Stiamo molto larghi nelle chiese ove i giovani sono come le mosche bianche e larghi, larghissimi nelle case dove durante il giorno restiamo soli a badare ai nipoti, al gatto e al canarino e largo nei nostri paesi dove alle feste si vedono solo i nonni. Nei gruppi di volontariato, nella protezione civile, a fare i nonni vigili… ci troviamo sempre noi, solo noi, i soliti anziani che non si tirano mai indietro.
E’ una questione di cuore. Giusto cinquanta anni fa il dott. Barnard ha cominciato a trapiantare quelli logori. Molti di noi campano con il pacemaker. In ogni caso, dopo tanti anni il cuore di quelli della mia generazione continua a battere di altruismo e di affetto.

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