Costume e Società
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La politica nel caos

E' ora di passare dai populismi al popolarismo. Esempi del passato oggi poco o del tutto inimitati.

In Italia siamo messi proprio male. In molti non vanno più a votare. Molti altri scelgono movimenti che contestano l’attuale sistema politico, al grido di "mandiamoli tutti a casa!".
La storia insegna che non basta sovvertire il sistema perché le cose vadano meglio. I grandi rivoluzionari di Francia e dell’ottobre russo sono presto diventati impopolari e hanno fatto una brutta fine.
I leader dell’antipolitica si sono affermati facendo opposizione sempre e su tutto, mettendo i bastoni tra le ruote di chi stava governando. Una volta che hanno la possibilità di governare riescono solo a mettere pali tra le ruote ad altri con cui dovrebbero collaborare per mandare avanti la baracca.
E i cristiani, in quanto cittadini, che ci stanno a fare? La loro coscienza cosa suggerisce?
E’ il problema che trovo nella lettera che ho qui davanti. E’ di Franco, un amico che, come dice, ultimamente ha tante perplessità sul mondo politico del nostro Paese e alle ultime votazioni ha dato forfait deluso dai candidati che fanno tante promesse che poi non mantengono. Ce l’ha in particolare con quelli che si propongono di rappresentare l’elettorato cattolico ma si dimostrano insignificanti e ambigui.
Immagino che altri lettori di questo settimanale abbiano le perplessità di Franco e allora vediamo se ci riesce di chiarirci le idee. La politica, si sa, è fatta dalle persone che sono quello che sono. Gli unici regimi dove le leggi sono perentorie e fuori di ogni discussione, sono le dittature. Da noi, per fortuna, i cittadini ogni 5 anni sono chiamati in causa per scegliere il Governo del Paese.
In questi decenni l’Italia è molto cambiata. Ci sono stati momenti di grande partecipazione popolare e periodi di crisi, di incetrtezza. Accanto a figure di politicanti di basso profilo e scarso senso civico, è giusto ricordare statisti impegnati e lungimiranti come Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Sandro Pertini. Cristiani convinti come Giorgio La Pira, Vittorio Bachelet, vittima del terrorismo, di alta dirittura morale che hanno dato il meglio di sé nelle istituzioni.
Se ci fate caso, tutti ascoltano l’attuale presidente Sergio Mattarella con grande rispetto. E’ sceso in politica, come ha confessato, per vocazione. Al funerale del fratello Piersanti, massacrato dalla mafia, si disse: "L’Antistato non l’avrà vinta. Prenderò il suo posto".
Nell’immediato dopoguerra i cattolici parteciparono compatti in politica e quelli furono gli anni della ripresa economica e del rilancio dell’Italia in campo internazionale. Anche ora ci sono cristiani impegnati in politica nei vari schieramenti del Parlamento sia nazionale che regionale e nella amministrazioni locali. Far politica vuol dire occuparsi della polis, dei problemi sociali del proprio Paese.
In fondo non è una novità. Già i primi cristiani si comportavano da buoni cittadini anche se vivevano in terre di pagani.
Per capirne un po’ di più consiglio Franco di leggere un antico testo di un anonimo cristiano. "La lettera a Diogneto" e, in particolare il passo famoso dove si ricorda che "i seguaci di Gesù vivono nella loro patria, ma come fossero stranieri, partecipano a tutto come fossero cittadini, da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è loro patria e ogni patria è loro straniera". Credo che in questo antico testo ci sia la chiave per capire il rapporto che intercorre tra credenti e la politica a cui partecipare con libertà di coscienza e responsabilità sociale. Il cristiano partecipa col senso del mondo. Condivide le gioie, le speranze, le fatiche, gli impegni degli altri uomini, come ha detto papa Benedetto nell’incontro con i giovani del Triveneto il 7 maggio 2011 ad Aquileia, "con positività, chiamati come siamo a dare ragione della speranza che è in noi".
Citando proprio la lettera a Diogneto ha precisato che impegnarsi in politica con lealtà e coerenza è uno squisito atto di carità sociale.
Il tema è complesso e può prestarsi a forzatue strumentali. Personalmente ho trovato illuminante l’intervento di Francesco Occhetta su "Civiltà Cattolica". Già nel titolo l’invito a passare dai populismi al popolarismo. "I populismi tendono a negare il pluralismo, le minoranze, venerano i leader ed esaltano i nazionalismi". Ne siamo alle prove oggi in Italia con una crisi che paralizza le istituzioni.
Finita la dittatura fascista, l’Italia si è data una Costituzione democratica con la partecipazione di partiti "popolari" che coinvolsero la gente attorno ai grandi progetti di libertà, di progresso e di giustizia. Era l’Italia di De Gasperi, Nenni e Togliatti. La gente si appassionava e, si schierava chi con Camillo e altri con Peppone. Nel Triveneto sorgevano le fabbriche e in Emilia Romagna si formavano le cooperative.
"In politica niente succede a caso - scrive Occhetta -. Allora i cattolici avevano una un progetto condiviso. E cita quanto nell’agosto del 1923 don Sturzo scriveva su Il Popolo d’Italia: "Il nostro programma è aperto e non estremo. Siamo democratici, ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi, vogliamo la libertà che promuova la dignità di ogni cittadino, vogliamo uno Stato autorevole ma combattiamo ogni tipo di dittatura anche in nome della Nazione".
E l’articolo di Civiltà Cattolica cita poi gli atti delle "Settimane sociali" e dei seminari estivi di Camaldoli" in cui si ribadisce che la vera democrazia si fonda sulla partecipazione e sul coinvolgimento dei cittadini auspicando che si formino ovunque circoli e gruppi di persone per conoscere e confrontarsi sui problemi sociali del Paese e impegnarsi insieme su percorsi da intraprendere.

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