Commento al Vangelo
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Domenica 4 settembre commento di Don Renato De Zan

"Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza"

Domenica 4 settembre commento di Don Renato De Zan

Lc 14,25-33
In quel tempo, 25 una folla numerosa andava con lui Gesù. Egli si voltò e disse loro: 26 "Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27 Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30 dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro". 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33 Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo".

Il testo

1. Il testo evangelico di Lc 14,25-33 diventa formula del lezionario con l’incipit liturgico "In quel tempo". Il brano è ritmato da un ritornello che compare tre volte: "Non può essere mio discepolo" (Lc 14,26.27.33). Il ritornello chiude tre proposte impegnative per seguire Gesù. La prima riguarda l’amore ("Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami…"). La seconda tocca il tema della solitudine e della sequela ("Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me…."). La terza, infine, consiste nella libertà dai propri averi ("chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi…"). Tra la seconda e la terza condizione ci sono due "mashal" che sviluppano il tema della prudenza prima di accingersi a un’impresa impegnativa.

2. Il testo di Lc 14,26 nasconde un "adattamento" della traduzione. Il testo originale greco dice: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo". L’attuale traduzione ha attenuato la portata del testo greco in questo modo: "Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, ecc.". Sappiamo che nella lingua semitica esiste o il bianco o il nero (non c’è il grigio). Noi diciamo: "Ti amo" o "Mi sei indifferente" oppure "Ti odio". Nell’Oriente antico, se non ami, necessariamente odi. La traduzione attuale ha riportato il pensiero di Gesù, ma non le sue parole, e si è ispirata a quanto dice Matteo in Mt 10,37: "Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me…" (Mt 10,37).

L’esegesi

1. Nel vangelo di Luca il cammino (Lc 13,22) è seguito dalla sosta di un banchetto (Lc 14,25). Successivamente c’è il camino (Lc 14,25), seguito dalla sosta di un banchetto (Lc 15,1-2). Gesù appare come l’uomo sapiente, il saggio profeta che è capace in ogni circostanza della vita di offrire il suo insegnamento. Sotto il profilo letterario il testo è Lc 14,25-35. La Liturgia ha soppresso Lc 14,34-35 (detto sul sale che diventa insipido). La formula liturgica presenta la situazione (la folla cammina con Gesù: Lc 14,25), una coppia di detti, in origine autonomi e provenienti dalla fonte Q (sull’amore e sulla croce: Lc 14,26-27), una coppia di "mashal", ispirati a Prov. 24,3-6 (torre e guerra: Lc 14,28-32) e il detto finale sulla rinuncia dei beni (Lc 14,33).

2. La coppia "amare-odiare" è tipicamente semitica, come è semitico il detto di Gesù sui due padroni: "Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza" (Lc 16,13). Sappiamo dall’esperienza quotidiana come l’amore per i propri cari (soprattutto figli) spesso fa dimenticare la giustizia e la verità. Amare Dio significa saper amare i propri cari senza sacrificare la giustizia e la verità.

3. "Portare la croce" ha un valore fondamentale che significa "restare solo, abbandonato, incompreso" come Gesù, quando lo hanno caricato della croce (nessuno poteva più avvicinarlo per una parola di consolazione o per un sorso d’acqua, ecc.). Se il cristiano ama Cristo sopra ogni cosa, sa amare in modo corretto anche i propri cari e sa anche rimanere solo e incompreso (anche dai propri cari, se non sono cristiani) per i valori che la fede cristiana comporta. Il distacco dei beni è un tema ricorrente nella predicazione di Gesù: nel cuore dell’uomo i beni possono prendere il posto di Dio ("o Dio o mammona").

Il contesto liturgico

1. La prima lettura ( Sap 9,13-18) prepara l’animo del cristiano ad accogliere le parole di Gesù: "Chi avrebbe conosciuto il tuo (= di Dio) volere, se tu ( = Dio) non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?" (Sap 9,17). La Colletta propria risponde pienamente sia alla prima lettura sia al Vangelo: "O Dio, che ti fai conoscere da coloro che ti cercano con cuore sincero, donaci la sapienza del tuo Spirito, perché possiamo diventare veri discepoli di Cristo tuo Figlio, vivendo ogni giorno il Vangelo della croce".

2. Il tema della "croce" viene ripreso dall’antifona di comunione: "Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo". Se "portare la croce" significa fondamentalmente rimanere fedeli a Gesù Cristo anche se per questo si rimanere soli, abbandonati e incompresi, l’esperienza della solitudine, dell’abbandono e dell’incomprensione va vissuta "come Lui" (sequela).

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