Commento al Vangelo
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Domenica 3 marzo, commento di don Renato De Zan

La parola rivela i pensieri del cuore: questo il senso del vangelo di questa domenica. "L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male"....

Parole chiave: Vangelo (126), Diocesi (190), Domenica (46)
Domenica 3 marzo, commento di don Renato De Zan

Lc 6,39-45
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: "Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: "Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio", mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.

Tematica liturgica
"La sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda". Sono le ultime parole del vangelo di oggi (Lc 6,39-45) alle quali fanno eco le parole della prima lettura ( Sir 27,5-8): "Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore". Ciò che l’uomo dice e fa mostrano, anche se parzialmente, ciò che l’uomo è nel suo mondo interiore.
Questo mondo interiore è una realtà complessa. Gesù vuole aiutare il proprio discepolo a formare tale mondo interiore e gli fornisce alcuni elementi sapienziali che lo possano aiutare. Il primo di questi suggerimenti sapienziali è la capacità di non affidare il proprio mondo interiore a un uomo: un cieco non può guidare un altro cieco. Il secondo offre la risposta giusta: affida il tuo mondo interiore al Maestro che può farti da guida sicura. Nel cristianesimo non c’è altro Maestro che Gesù. Le sue parole sono inequivocabili: "E non fatevi chiamare  ’guide’, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo (Mt 23,10). Un secondo principio sapienziale consiste nel non compararsi agli altri (che ci possono apparire migliori o peggiori). C’è il pericolo di fare i "commedianti" (ipocriti) della fede, soprattutto se il discepolo si compare con chi ritiene che sia peggiore di lui. Il terzo criterio consiste nel valutare se stessi per ciò che si riesce a fare: il frutto buono (molto o poco che sia) proviene dall’albero buono come la parola saggia proviene da chi ha accumulato dentro di sé le parole di sapienza del Maestro.

Dimensione letteraria
L’ultima parte (Lc 6,36-49) del discorso della montagna di Luca è un insieme di parole di Gesù dette in circostanze diverse che la tradizione ha unito e Luca ha riportato. Che si tratti di parole di Gesù in situazioni diverse è testimoniato dal fatto che le stesse parole, nel vangelo di Matteo, si trovano in due situazioni diverse. Il dato viene confermato dal vangelo apocrifo di Tommaso e dal papiro di Oxirinco  e dal papiro di Egerton. Il testo di Lc 6,39-45 è un testo parziale che ha qualche cosa di particolare: i concetti sono espressi in modo binomiale (due ciechi; discepolo-maestro; due fratelli; due alberi; buono-cattivo negli uomini). Due ciechi non possono vedere la luce. Un discepolo non può vedere più luce di quanta ne veda il maestro. Un peccatore non vede più luce di un altro peccatore. Ogni persona buona è come l’albero. Se è buono darà frutti buoni, diversamente darà frutti cattivi. La struttura di fondo si può trovare nel concetto delle due vie: la via della luce e la via delle tenebre. Tutte queste parole di Gesù, in modo più o meno diretto, sono un’illustrazione figurata e proverbiale di tale concetto. L’illustrazione figurata nel mondo biblico viene chiamata "mashàl", tradotta in greco con il termine "parabolé". L’espressione "Gesù disse ai suoi dicepoli un parabola" non significa che Gesù debba dire un racconto, ma semplicemente che sta per fare un mashàl, un discorso figurato. Il testo originale incomincia così: "Disse loro anche una parabola", il testo liturgico è più chiaro: "In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola".

Riflessione biblico-liturgica
a. Il proverbio sul cieco che guida un altro cieco è variamente interpretato. Può essere un detto polemico contro le autorità giudaiche che non riuscivano a comprendere la persona di Gesù. Può essere un detto polemico contro le autorità cristiane della comunità di Luca che si sentivano superiori perfino a Gesù stesso. Può essere compreso come un detto contro i cristiani non maturi, che pretendono di essere guide per gli altri (cfr pagliuzza, trave).
b. Come Gesù ha sempre giudicato i fatti, ma non le persone, così anche il discepolo è chiamato a seguire questo atteggiamento e, perciò, non deve ritenersi superiore al Maestro, deviando da questo principio.
c. Non bisogna dimenticare che nel mondo orientale la parola era strettamente legata all’azione. In ebraico "dabar" significa "parola", "cosa" e "azione". L’uomo parla e si comporta per ciò che ha nel "cuore". Se è vero che ciò che l’uomo dice e fa non esprime compiutamente in ogni singolo elemento chi lui sia, è altrettanto vero, però, che la sua profondità interiore secondo dio comunque si manifesta.

Domenica 3 marzo, commento di don Renato De Zan
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