Commento al Vangelo
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Domenica 22 ottobre, commento di Don Renato De Zan

A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio

Parole chiave: Moneta (1), Vangelo (126), Cesare (2)
Domenica 22 ottobre, commento di Don Renato De Zan

Mt 22,15-21
In quel tempo, 15 i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17 Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?". 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: "Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19 Mostratemi la moneta del tributo". Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: "Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?". 21 Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio".

Il Testo

1. Tra la pericope biblica e la formula liturgica del vangelo c’è poca differenza. La Liturgia ha cancellato l’avverbio originale "allora" e lo ha sostituito con il classico incipit "In quel tempo". Inoltre, ha soppresso il versetto finale (Mt 22,22: "A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono"). In questo modo viene attenuato il sapore dello scontro e viene lasciato cadere il cenno alla sconfitta dei discepoli dei farisei e degli erodiani.

2. La formula si divide in tre momenti principali. La presentazione della scena (Mt 22,15-16a) pone in campo i protagonisti (discepoli dei farisei e erodiani) e le loro intenzioni (coglierlo in fallo nei suoi discorsi). Segue un dialogo di tipo rabbinico (Mt 22,15-21) dove l’interrogato interroga. Dalla risposta degli interlocutori nasce la conclusione. Il brano appartiene al genere letterario delle apologie e si conclude (Mt 22,21c) con un detto sapienziale: il cristiano come cittadino deve essere onesto verso lo stato (anche pagare le tasse), come cristiano è chiamato a donare il suo cuore a Dio.

L’Esegesi

1. Gesù disse questa frase in una situazione certamente non felice. Gli ebrei pensavano che Dio fosse il re d’Israele (interpretazione restrittiva e fondamentalista dell’affermazione isaiana: "Io sono il Signore e non ce n’è altri": cf prima lettura, Is 45,1.4-6). Pagare le tasse all’imperatore significava riconoscere un re diverso da Yhwh. Si comprende come il pagamento delle tasse fosse al centro delle discussioni morali, giuridiche e politiche. La cattiveria dei farisei e degli erodiani era questa: se Gesù avesse detto di pagare le tasse sarebbe stato accusato di blasfemia, se, invece, avesse detto di non pagarle, si sarebbe posto contro l’autorità dominante. Gesù risponde, ma in modo molto alto, rifacendosi a quanto dice lo Shemàch (Dt 6,4-5: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze"). Le tasse vanno a Cesare, ma tutto il mondo interiore dell’uomo va a Dio.

2. Per la Chiesa primitiva non è stato facile mettere a fuoco i rapporti con lo stato imperiale. Da una parte Gesù è il Signore assoluto del cristiano e dall’altra c’è l’impero, che vuole esercitare una padronanza totale sul cittadino, sul suddito e sullo schiavo. Paolo e la sua scuola hanno affrontato il tema e così lo hanno risolto. Paolo nella lettera ai Romani esortava i credenti a prendere sul serio il potere temporale e a collocarsi nella logica del cittadino che rispetta le leggi dello Stato. Così concludeva la sua riflessione: "Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto" (Rom 13,7).

3. Un discepolo di Paolo, nella prima lettera a Timoteo, chiedendo anche la preghiera per i responsabili della cosa pubblica, forniva alcuni parametri per riconoscere come legittima l’autorità politica: "Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità" (1Tm 2,1-2). Solo quando l’autorità rispetta certi valori per i suoi sudditi (allora) o per i suoi cittadini (oggi), può essere considerata autorità legittima: una vita calma e tranquilla ricca di pietà e di dignità. I sociologi hanno materiale su cui riflettere.

Il Contesto Liturgico

1. Nella prima lettura (Is 45,1.4-6) Dio presenta Ciro l’Achemenide come strumento in mano a Dio per liberare Israele. Sebbene Ciro non conosca Dio, viene insignito del titolo di "eletto" e viene reso vittorioso sulle nazioni e sui rispettivi sovrani. L’apertura dei battenti delle porte è un’allusione alla conquista facile di Babilonia., Non è, però, Ciro, il liberatore e il vincitore, colui al quale Israele deve rivolgersi come autorità assoluta. Resta chiaro che non c’è nulla "all’infuori di Dio". Dio è "il Signore, e non ce n’è altri".

2. La Colletta propria, che apre la celebrazione, trasforma in preghiera alcuni concetti fondamentali per il tema Chiesa-Stato: chi ha l’autorità non la trasformi in potere, ma in servizio; la vera autorità serve al bene di tutti; gli avvenimenti non sono frutto solo dell’intrecciarsi di volontà politiche (più o meno libere) ma rispettano un progetto misterioso di Dio.

3. Per un approfondimento: FABRIS R., Matteo, Commenti biblici, Borla, 1982, 452-454; GNILKA J., Il vangelo di Matteo. Parte seconda, Commentario teologico del N. T., Paideia, Brescia 1991, 362-370; GRASSO S., Il vangelo di Matteo, Collana Biblica, Ed. Dehoniane, Roma 1995, 517-521; LUZ U., Matteo 3, Commentario Paideia. Nuovo Testa

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