L'Editoriale
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L'ago della bussola del mondo

Tante le questioni aperte (tra tutte la guerra in Ucraina e Medioriente) e alta resta l’attenzione in attesa che il voto degli americani decida come posizionare quell’ago della bussola del mondo che sono gli Usa.

Parole chiave: Biden. Harris (1), Usa (10), Elezioni (61), Trump (9)
L'ago della bussola del mondo

Ago della bussola

del mondo

Simonetta Venturin

Pare che mai elezioni presidenziali Usa siano state più attese di quelle che si terranno martedì 5 novembre. Non perché il mondo sia diventato simpatizzante degli Usa, tutt’altro, ma perché molti degli eventi di interesse globale - uno su tutti le due guerre in Ucraina e in Medioriente – sono da mesi collegati, nei discorsi di politici e commentatori, al responso di queste urne.

La sessantesima corsa alla Casa Bianca era partita tutta al maschile, riproponendo la sfida delle elezioni 2020: Biden versus Trump, 82 anni il primo, 77 il secondo. L’estate ha cambiato le cose: ai crescenti dubbi relativi alla salute del primo, uniti a qualche gaffe, si sono aggiunti da una parte gli spari contro Trump e dall’altra le perdenti performance di Biden nelle sfide televisive contro un avversario che sa mordere assai bene. A quel punto, gli elettori-sostenitori democratici devono aver fatto sentire tutto il loro peso (milioni di dollari versati per la campagna elettorale), tanto che il 21 luglio Biden ha annunciato il suo ritiro e manifestato l’appoggio alla candidatura della sua vicepresidente, Kamala Harris, sessantenne donna dei record: la prima vicepresidente donna degli Usa (2020-2024), la prima vicepresidente asio-americana degli Usa e ora anche la seconda donna in assoluto candidatasi alla presidenza (dopo Hillary Clinton nel 2016). Al di là dei primati, va riconosciuto che Kamala Harris non ha sempre goduto della simpatia di tutti i Democratici e, dopo i primi entusiasmi, i sondaggi hanno mostrato un Trump prima in rimonta e ora in sorpasso.

Cambiati i candidati in corsa, i temi caldi della campagna elettorale sono rimasti: i conflitti citati, l’immigrazione, l’aborto, le tasse, il rilancio economico, l’impronta da dare alla Federazione. Per Trump, come già nel 2016, permane l’imperativo “America first”, filo conduttore del suo sguardo sul mondo e, infatti, va dichiarando che con la sua vittoria il conflitto in Ucraina si fermerebbe subito, anzi si è impegnato a farlo cessare prima ancora del suo insediamento (non celando né simpatie putiniane né la convinzione che per l’Ucraina la guerra è persa). Allo stesso modo non ha nascosto l’idea di accentramento del potere nelle mani dello stato, di politicizzazione delle strutture amministrative, di creazione di uno stato di polizia forte, della diminuzione della spesa per sanità pubblica, assistenza, welfare. Invariato il suo sguardo sull’immigrazione: dopo il rigore del muro e gli episodi di forte contrasto all’ingresso dei latino-americani che hanno caratterizzato la sua presidenza (2016-2020), oggi dichiara il mancato rigore di Biden – Harris responsabile dell’attuale forte ondata migratoria, manifestando di voler interrompere il flusso di ingressi, specie dal Messico, che fa degli Usa “il bidone della spazzatura dell’America”. Non diversamente da quanto accade in Italia e in Europa, questo è un tema assai caldo: sia in campagna elettorale che nella vita politica degli Usa con ricadute anche nel mondo, come hanno dimostrato i mesi scorsi, quando i Repubblicani hanno bloccato per mesi 110 miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina, e in parte ad Israele, in cambio di una politica dei Democratici più severa riguardo l’immigrazione illegale.

Harris e Trump si trovano su fronti opposti riguardo il cambiamento climatico come in materia di aborto: convinta sostenitrice di scelte green e dichiaratasi per l’autodeterminazione delle donne la prima; pronto a tacciare di “fake news” gli allarmi dei climatologi e contrario all’interruzione di gravidanza tanto da ipotizzare di farla abolire a livello federale il secondo.

Come in ogni tornata elettorale ciascun candidato ha un programma che va incontro a una parte della società: se di Kamala Harris, erede del progetto Biden, possono piacere ai cittadini il sostegno ai lavoratori, il rafforzamento del sindacato, gli investimenti volti a rendere l’America più verde e produttiva, l’aumento delle tasse solo per i ceti più ricchi (reddito annuo al di sopra dei 400mila dollari), di Trump – per contro – piace la fermezza contro i migranti, la risolutezza dell’uomo forte e dell’imprenditore, la determinazione mostrata contro le guerre e contro le spese militari in soccorso di nazioni lontane, le promesse di non rialzo delle tasse, il rigore conservatore verso valori come la vita nascente. Sullo stesso, però, non può non pesare un primato giudiziario negativo: è stato infatti il primo ex presidente Usa sottoposto a un procedimento penale. Si sono occupate di lui: la Procura di Manhattan (34 capi di imputazione gravi), la Corte federale di Miami (37 capi di accusa), la Corte federale della Colombia (4 capi d’accusa); nell’agosto 2023 è stato arrestato (immediata scarcerazione su cauzione); nel maggio 2024 è stato condannato per 34 capi d’accusa e in seguito la Corte suprema gli ha concesso una parziale immunità presidenziale, limitatamente ad alcune azioni intraprese nell’esercizio dei poteri costituzionali. Gravano su di lui: il versamento – in cambio del silenzio su una presunta relazione - di 130mila dollari alla pornostar, Stormy Daniels, attinti dai fondi della campagna elettorale (2016); la conservazione nella casa privata in Florida di documenti relativi alla sicurezza nazionale (armi nucleari, piani militari e intelligence); infine – ed è il più grave – l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 (non effettuato personalmente ma istigato e non fermato) con l’intento di sovvertire l’esito delle elezioni che a novembre 2020 hanno visto la vittoria del rivale Biden.

Tante dunque le questioni aperte e alta resta l’attenzione in attesa che il voto degli americani decida come posizionare quell’ago della bussola del mondo che sono gli Usa.

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