L'Editoriale
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Europa: la nostra generazione miope

Quale sogno o idea di Europa ha un Paese - anche i media hanno una responsabilità - che ha narrato più la disunione che l’Unione europea. Sui temi caldi di lavoro, migranti e denatalità cosa significa per il futuro dell’Europa - quindi nostro - scegliere una strada politica piuttosto che un’altra? Quanta informazione e quante autoreferenziali cronache hanno animato le scorse settimane?

Europa: la nostra generazione miope

  Per fortuna che non la voleva più quasi nessuno questa Europa matrigna, che - urne in vista - torna in auge con passerelle di intenti. Invisa e usata: cara Europa, non sono i tuoi giorni migliori quelli che ti stiamo regalando.
Abbiamo studiato - e dovevamo farlo di più - la dedizione e la devozione dei padri fondatori all’impresa della tua nascita. Ne ricordiamo i nomi e poco altro: Adenauer, Churchill, Schuman e il nostro De Gasperi. Il loro sogno di unità di popoli volava alto sopra le macerie di due guerre mondiali combattute nazione contro nazione: un’Europa a baluardo di pace, democrazia e libertà. Pilastri irrinunciabili ma non infrangibili.
L’Europa oggi va stretta ma tanto vale servirsene. Tra accuse e silenzi è giusto chiedersi: quale sogno o idea di Europa ha un Paese che non sa andare oltre la lite quotidiana, che galleggia sui marosi dei commenti social? Un Paese cicala con un’economia altalena che sale per debito e spread, scende per tasso di crescita, minaccia aumenti d’Iva e tifa flax tax.
Quale sogno o idea di Europa ha un Paese che si comporta come lo scolaro che non fa i compiti e, consapevole della reprimenda made in Bruxelles, non pensa a rimettersi in carreggiata ma a cambiare professore?
Quale sogno o idea di Europa ha un Paese - anche i media hanno una responsabilità - che ha narrato più la disunione che l’Unione Europea. Chi sa cosa succede nella vita economica, scolastica, culturale e politica degli altri Paesi e quale peso avremo stritolati tra i colossi di Cina e Russia e con gli Usa attenti a se stessi?
E sui temi caldi di lavoro, migranti e denatalità cosa significa per il futuro dell’Europa - quindi nostro - scegliere una strada politica piuttosto che un’altra? Quanta informazione e quante autoreferenziali cronache hanno animato le scorse settimane?
Cara Europa: noi non guardiamo a te. Siamo miopi. Ti sentiamo vecchia, senza ricordare la tua età. Hai poco più di sessant’anni, se guardiamo alla Comunità economica nata dal trattato di Roma del 1957; neanche trenta, se consideriamo il trattato di Maastricht del 1992; neppure venti, se pensiamo all’euro che condividiamo dal 2002.
Ma più grave è che non ricordiamo un aspetto fondante e straordinario: sei molto più di una istituzione. Sei in noi, noi ti formiano e da te siamo stati formati. Ci unisce una cultura ricca di mescolanze, nata da Zeus che rapì Europa (una ragazza fenicia) e la portò in Grecia.
Da italiani abbiamo perso l’orgoglio per come ci ha narrati Goethe, per quanto Shakespeare ha innalzato Verona e Venezia, per l’amore di Joyce per la nostra Trieste.
Da europei abbiamo scordato che il nostro inno esalta la gioia di stare insieme come un’armonia: lo ha firmato Beethoven.
Così, cara Europa, invece di innalzare lo sguardo a te e alla tua bandiera di cielo e di stelle, lo abbiamo tenuto chino sul nostro ombelico. E se ti tirano in ballo, sbottiamo con fastidio: metti il naso nei nostri affari e non ti prendi i migranti.
In questa bruma, però, una luce c’è, bella e potente. Viene dai giovani che, girovaghi dell’Erasmus e con compagni di banco che vengono da mezzo mondo, nel mondo si sentono a casa. In essi confidiamo. Sono già europei: lo sono nei viaggi di studio di tanti che non conosciamo e di alcuni che invece non dimenticheremo più: Valeria Soresin, Giulio Regeni, Antonio Megalizi.
Speriamo che tocchi solo a questa nostra generazione di mezzo - stretta tra l’imponenza dei padri fondatori e l’apertura dei nipoti - il ruolo infruttuoso di pecora nera. Noi, così italici

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