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10 febbraio 1996 - 2021: venticinquesimo dalla scomparsa di S.E. Abramo Freschi

Mercoledì 10 febbraio alle 16 messa di anniversario presso la tomba di S.E. Freschi nella cappella del Centro diocesano a Pordenone

10 febbraio 1996 - 2021: venticinquesimo dalla scomparsa di S.E. Abramo Freschi

Cinquant’anni fa, iniziato il ministero episcopale in duomo a Portogruaro, mons. Freschi inaugurava la presenza della guida della diocesi nella città da poco capoluogo di provincia.
Ci separano venticinque anni dal vescovo Freschi. Già veniva ricordato quattro mesi fa (a Casa Emmaus di Azzano Decimo, a lui dedicata) a cinquant’anni dal giorno della sua ordinazione episcopale. Allora - era il 1970 - la Metropolitana di Udine aveva ri-accolto, dopo che qui era stato anche ordinato presbitero nel 1937, e consacrato per un ministero che fu poi formidabile il prete della carità ai reduci di guerra (erano stati circa un milione in pochi giorni del 1945), l’organizzatore delle più grandi colonie marine e montane d’Italia, il solerte "braccio" di Paolo VI.
Era stato negli anni Sessanta, dopo il Concilio, vicepresidente della Charitas Internationalis, accompagnando il primo viaggio di un papa in Terrasanta (1964), coinvolta di lì a qualche anno nella "guerra dei sei giorni": e allora monsignor Abramo non aveva esitato a salire su un aereo carico di provvidenza; e poi (1968) in Biafra.
Il rischio cui sempre sfuggì fu quello dell’ambizione del carrierismo. "Per sua natura schivo e discreto, circospetto e cauto, sensibile e delicato, alieno dal protagonismo vociante e ciarliero - scrive mons. Agostino Lauro in "Flammescat Igne Caritas", il volume che dedicammo nel 1997 ad Abramo Freschi sacerdote e vescovo - non si fece mai abbagliare dal fascino di gesti clamorosi".
L’anno prima della nomina vescovile del 20 luglio 1970 era stato designato alla sede di Cagliari primaziale della Sardegna.
La scelta per la Chiesa concordiese l’aveva accolta da un lato, da friulano radicato nella sua terra, lieto di poter rincasare e incarnare così l’annuncio evangelico in un contesto geografico-culturale-ecclesiale che gli era consono per nascita, mentalità, tradizione; dall’altro consapevole di un compito spinoso, espressamente affidatogli da Paolo VI: quello di ridisegnare - i tempi erano maturi, ma la realizzazione concreta comunque difficile - l’assetto territoriale del governo diocesano, operazione non riuscita, per varie contingenze e risorgenti veti, nei secoli e decenni precedenti.
Protagonista del nuovo corso della diocesi. Monsignor Freschi è il vescovo che subito (tre mesi dopo il suo arrivo) inaugurò un nome altro, e suggestivo, alla diocesi (Concordia-Pordenone: coniugazione di antico e nuovo, sancita da un decreto che ha compiuto cinquant’anni il 12 gennaio scorso), che ne traslò poi la sede a Pordenone (città centrale, nuova provincia), che qui ne provvide alfine le strutture direttive in un moderno e funzionale Centro: operazione possibile solo a un amministratore dotato, e intelligente quanto disinteressato nell’esercizio ancora di una carità che, perché tale, "trascende la pura beneficenza e preferisce esternarsi attraverso i fatti e le cose realizzate con tenacia e lungimiranza (res, non verba)". Che, soprattutto, non fa per sé (e non fa debiti): dal vescovo Abramo ne avemmo l’esempio perché ci rimise la salute per quell’ardua impresa e, conclusala nel 1989, neppure una notte abitò il complesso che a lui solo la diocesi deve; e subito dopo lasciò di questa pure la guida.
È per capacità rare quanto non mostrate che De Gasperi, in visita a una delle creature di Freschi in Friuli in piena ricostruzione post-bellica, sussurrò: "Se non fosse prete l’avrei fatto ministro!", mentre l’arcidiocesi natale di Udine avrebbe voluto vederselo restituito in una gravosa contingenza anche economica dei primi anni Settanta.

Walter Arzaretti

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