Il presepe nell'arte: un messaggio potente che attraversa le ere
Arles, Padova, Palermo: la Natività nelle opere d'arte da oltre un millennio
Una delle prime raffigurazioni della Natività non è né un quadro, né un affresco, ma, paradossalmente, un sarcofago conservato ad Arles: rappresenta nella parte inferiore i tre magi e in quella superiore il bue e l’asinello, un esultante Giuseppe con bastone, che secondo alcuni studiosi (tra cui François Boespflug ed Emanuela Fogliadini, in Il Natale nell’arte d’oriente e d’occidente, 2020 Jaca Book, libro essenziale per capire il rapporto tra arte e Natività dal quale provengono alcune di queste citazioni) è in realtà un pastore; una Madre pensierosa sembra quasi voler cullare il Bambino, più grande di quanto ci si possa aspettare, avvolto in fasce.
La dimensione di Gesù è la prefigurazione di una grandezza non terrena, perché qui, come nell’arte delle origini, regna sovrano il simbolismo. È un particolare importante, che ci fa vedere l’arte cosiddetta primitiva sotto aspetti diversi da quelli della seppur geniale più ricca versione prospettica.
Nella cappella Palatina a Palermo, in un mosaico del XII sec., si ammirano Angeli, magi a cavallo, un san Giuseppe defilato e di spalle, che fanno da corona ad un Piccolo sorretto amorevolmente dalla madre. E, sempre in questo periodo, un Giuseppe assai simile, nella stessa posizione, ma con il viso rivolto verso il Bambino, re magi con i cavalli sullo sfondo nella parte superiore sono presenti in un affresco nella chiesa di Karanlik Kilise, in Turchia.
Finché non si arriva alla “modernità” giottesca della Cappella degli Scrovegni in una Padova (vedi foto) a cavallo tra il 1303 e il 1305, dove Maria si avvia a prendere le distanze dalla fissità bizantina: affettuosa e quasi preoccupata sta per deporre il Bambino sulla mangiatoia, con un Giuseppe ancora di spalle e in meditazione. Ma non solo Giotto: per commuoversi di fronte allo struggente spettacolo di una Madre guancia a guancia con il suo bambino, uno stupendo, trecentesco esempio nella chiesa dei santi Gioacchino e Anna, si trova nel monastero serbo di Studenica.
Forse per iniziativa di pittori italiani, nella seconda metà del Quattrocento la figura della Vergine Madre, da sdraiata o seduta si alza in piedi o si inginocchia di fronte al Figlio. Infatti in piedi, in contemplazione del bimbo che si mette teneramente un dito in bocca in un spazio colmo di fiori nel bel mezzo di un bosco, è la Madre dipinta da Filippo Lippi su una tavola di legno ora a Berlino.
Poi inizia la grande diaspora: da una parte la continuazione del genio giottesco attraverso lo studio delle forme sensibili, della realtà visibile e palpabile, dall’altra il ritorno al simbolo, perché il mistero dell’incarnazione non può essere racchiuso in una imitazione che offre solo l’esteriorità della materia, non il suo senso ultimo.
È pensando a questo che Botticelli, l’artista che ha più di altri colpito l’immaginario collettivo con le sue donne -e Madonne- di una grazia indicibile, dipinge una Natività che va oltre i canoni classici della bellezza sensibile, per bussare alle porte del mistero non rappresentabile. Dopo aver ascoltato le ammonizioni di Savonarola contro i lussi della corte medicea, l’artista entra in una crisi profonda. Uno dei culmini di questa crisi è la Natività, siamo nel 1501, oggi a Londra, dove si assiste al ritorno all’essenzialità, lontano dalla complessità raffaellesca della Pala Oddi in Vaticano o dalla pur stupenda Adorazione dei Magi di Leonardo negli Uffizi. In quella che è una delle ultime opere conosciute di Botticelli, gli angeli danzano una carola o abbracciano gli uomini, la Vergine, pur essendo indietro, è più grande delle figure avanzate. Quasi un ritorno l’icona, che non deve imitare le cose del mondo. Senza le “finzioni” prospettiche che perpetrano le illusioni di un’umanità che ha perduto la Strada.
Il fascino dell’icona è vivo anche oggi, basta ammirare, tra i tanti esempi, “La natività di Cristo”, tempera su legno della serba Ana Ilic, realizzata 4 anni fa, o “La tenerezza di Dio”, celebre mosaico del gesuita Rupnik al policlinico Gemelli di Roma, o il cinese He Qui, influenzato dalla cultura popolare e rurale, specializzato in arte di argomento biblico, che realizza nel 1998 con inchiostro e tempera, “La nascita di un bambino”, con una mamma che appoggia teneramente la sua guancia contro quella del neonato, in un rosa emergente dall’azzurro cupo delle presenze umane, animali e angeliche. Semplicità e nello stesso tempo fascinazione di sguardi preveggenti e misteriosi. La potenza millenaria di un richiamo che va oltre l’intellettualismo e l’ampollosità. Va dritto al cuore, attraverso l’arte.
Marco Testi (Sir)
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