A Pordenonelegge domenica 19 l'Afghanistan raccontato da un ragazzo in fuga
Alle 20.30 nello spazio Gabelli in dialogo con Giuseppe Ragogna e Michelangelo Agrusti
Sarebbe tremendo che la storia di un ragazzo d’Afghanistan diventasse richiamo a fine di pubblico. Ma sarebbe straordinario se la storia di un ragazzo d’Afghanistan spalancasse le menti di chi lo ascolta su una questione che il nostro mondo occidentale non vuole o non riesce a comprendere appieno: dalla guerra si fugge.
Così ha fatto Fawad e Raufi, nato nel 1991 a Kabul. Lì si era laureato e aveva iniziato ad insegnare. Aveva - e ha - una passione: scrivere. Allora erano poesie, oggi sono libri. Ne ha già due all’attivo: chi ama la penna non ha altro strumento per dire al mondo cosa sta succedendo di brutto a lui, alla sua famiglia, al suo paese e a tanti come lui che hanno intrapreso il viaggio d’esilio.
Sono nati così "Dall’Hindu Kush alle Alpi. Viaggio di un giovane afghano verso la libertà" (207 pagine, Zel edizioni, 2018) e il recente "Ultimi respiri a Kabul. Tra la neve bianca e i lupi neri" (318 pagine, Zel edizioni, 2021). Ed è questo il libro che, domenica 19 settembre alle ore 20.30 nello Spazio Gabelli, Fawad e Raufi presenta, in dialogo con il giornalista Giuseppe Ragogna.
Fawad ha vissuto 24 anni in patria, ma non l’ha mai vista in pace. Il suo è un raccoonto di fatti che coinvolgono lui e la sua famiglia; fatti che aiutano a comprendere anche la situazione attuale afghana, una terra ripiombiata in mano talebana dopo vent’anni di presenze straniere e, soprattutto, dopo vent’anni di spiragli di apertura all’occidente e a maggiori libertà, ora negate.
Un racconto che Fawad e Raufi, sempre insieme a Giuseppe Ragogna, aveva già fatto venerdì 3 settembre in una doppia e affollata presentazione a Casa Madonna Pellegrina. Il che dice che non manca il desiderio di comprendere e di conoscere, direttamente da chi lo ha vissuto, il lungo viaggio dall’Afghanistan all’Italia.
Fawad ha sentito la necessità di raccontare prima di tutto quello: il viaggio. Il suo è iniziato all’una di notte del 16 settembre 2015. Uno zaino leggero, i pensieri pesanti per aver abbandonato casa, famiglia e paese, per un salto nell’ignoto, per i dieci mila dollari pagati dalla sua famiglia all’agente. Se ne va in pulmann in piena notte e scopre che di pulmann pieni di giovani uomini in fuga ce ne sono tantissimi. Uomini: perché per le donne è troppo rischioso.
Un viaggio lungo un anno e mezzo di rischi, diecimila chilometri percorsi, due volte incarcerato (in Iran e Bulgaria), vari mezzi di trasporto e l’attraversamento della rotta balcanica, il tratto forse peggiore, con i sacchi di plastica nera come solo riparo: "Siamo forse noi l’immondizia del mondo?" si è chiesto.
Nel 2016 l’arrivo in Italia, l’accoglienza e un percorso di integrazione culminato con l’inserimento in una famiglia di Azzano (Rita che ora lui chiama "la mamma italiana" e il marito Ezio).
Una favola bella per i giorni che verranno, ma che non cancella il male toccato a lui, ai giovani come lui che ancora sono in viaggio e vengono scacciati, alla sua famiglia rimasta in Aghanistan che vive oggi nuovi giorni terribili come le altre famiglie afghane tra polvere, macerie, attentati e paura. Ha raccontato che quando un figlio esce di casa gli mettono in tasca biglietto col nome e un telefono, perché se dovesse accadere qualcosa di brutto si saprebbe chi avvisare.
Dei giorni trascorsi in Afghanistan, delle angherie e degli episodi violenti subiti, parla il secondo libro che si chiude esattamente sulla notte del 16 settembre 2015, dalla quale il primo libro ha inizio. Il volume è anche corredato di un capitolo dedicato alla storia afghana.
Non si fugge se non per la disperazione più grande, quando ogni attività lavorativa è impedita (a lui hanno incendiato la pompa di benzina messa in piedi dai suoi con tanti sacrifici), la vita stessa è minacciata.
Ascoltarlo, e leggerlo, è l’unico modo per sapere, senza pregiudizi.
Simonetta Venturin
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