11 settembre: il prof Andreoli "il giorno in cui è nata la società della paura"
Vent'anni dopo gli attentati alle Torri gemelle, i 3mila morti e i vent'anni di guerra al terrorismo che ne sono seguiti la lettura del prof. Vittorino Andreoli
“L’11 settembre del 2001 è nata la società della paura. La paura è epidemica e come un virus passa da uno all’altro e diventa panico”. Così Vittorino Andreoli, psichiatra e scrittore di fama internazionale, membro della New York Academy of Sciences, rievoca al Sir l’attentato, ordito da Al Qaeda, alle Torri Gemelle e ad altri obiettivi sensibili Usa, per quella che viene ricordata come la più grande strage di civili compiuta su suolo americano: oltre 3mila morti e 6mila feriti. Una data spartiacque della storia contemporanea destinata a cambiare il mondo.
Professore, cosa intende per “società della paura”?
Si tratta di una società tesa sempre ad immaginare che da un momento all’altro possa succedere qualcosa di drammatico per la vita del singolo e della comunità. La paura finisce per caratterizzare una società quando perde il suo significato biologico, naturale, che è un meccanismo di difesa poiché permette di prevedere un pericolo e quindi anche la possibilità di evitarlo. Ma c’è un momento in cui la paura non sa legarsi a qualcosa di specifico e dunque di prevedibile e che, per questo, diventa panico. La società è oramai entrata in una situazione in cui non è prevedibile ciò che può colpirci.
La paura è l’eredità che ci lascia l’11 settembre 2001?
L’attentato è la raffigurazione dell’orrore e dell’inimmaginabile. Credo che quella terribile giornata abbia mostrato come la paura non fosse più un meccanismo di difesa perché era impossibile difendersi da quella forza che scatenò il disastro. Tutto ciò ha creato in ciascuno di noi una specie di “fatalismo” che ci fa dire “non siamo più in grado difenderci”. Da qui comincia una serie di eventi dell’imprevisto, dell’assurdo, dell’orrore perché l’uomo diventa impotente davanti a tutto ciò. E così è cambiata la nostra esistenza, la nostra vita. Paradossalmente, le guerre non fanno parte di questo nuovo stile di fare paura. Le guerre, di cui tutti auspichiamo la fine, sono dichiarate, con eserciti in campo che attaccano e difendono. Con l’11 settembre abbiamo fatto esperienza che le vie attraverso cui potremmo essere attaccati come singoli, comunità, società e Paesi, sono assolutamente imprevedibili e possono capitare da un momento all’altro.
Vede delle analogie con quanto sta avvenendo con la pandemia da Covid-19?
Il virus, un’invisibile realtà, un oggetto biologico, colpisce tutto il mondo e ci costringe a restare in casa, che vuol dire “non potersi difendere”. La società della paura è oggi ulteriormente spaventata poiché sa che tra un minuto ci può essere la fine, lo sconvolgimento, il dolore inaspettato.
L’11 settembre ha fatto cadere le nostre certezze innescando in tutti una sorta di ansia anticipatoria per qualcosa che potrebbe accadere. Siamo pervasi da un forte senso di incertezza e insicurezza.
In questo senso vedo una continuità, sul piano della società della paura, tra pandemia e 11 settembre.
Quale è stata, se c’è stata, la reazione delle nostre società a questa paura diffusa? Sono state capaci di attivare forme di difesa di tipo sociale, culturale o psicologica?
No. Non sono state capaci. Questo è il dramma delle nostre società e dei Governi. In questi 20 anni è aumentato enormemente il potenziale degli armamenti anche atomici. Oggi in 15 minuti testate nucleari sono in grado di partire dalle loro basi e colpire. Questo è un ulteriore segno che non abbiamo compreso i tempi.
Non si può pensare di vincere la paura facendo paura.
Come si vince questa paura?
Per tornare ad acquistare un po’ di certezze e di sicurezza bisogna fondarsi sul rapporto tra gli uomini, su ciò che io chiamo “umanesimo” basato sui principi del rispetto dell’altro, della diversità, della vita. Diversamente continueremo a creare nemici pensando erroneamente di essere forti. L’11 settembre, così come il Covid-19, mostra l’evidenza di questo errore tanto è vero che siamo tutti impotenti nell’agire, non sappiamo più come difenderci.
Dopo venti anni, cosa potrebbe ancora insegnarci l’11 settembre?
Che un nemico non si vince facendogli paura ma amandolo. È il messaggio di comprensione lanciato duemila anni fa da Gesù di Nazareth. Le parole chiave sono l’umanesimo e il rispetto. Non possiamo sempre pensare di identificarci per un nemico. Mi si lasci anche dire, però, che in questi 20 anni abbiamo assistito ad una enorme crisi della fede, come dimostra, per esempio, la frequenza domenicale alla messa. Come mai – è la domanda – un messaggio straordinario come quello di Gesù non riesce più ad essere un riferimento principale? Una volta si pensava al Padre eterno e ciò era il segno di un bisogno. Occorre riporre fiducia nell’uomo e dall’uomo alla trascendenza. O vogliamo continuare a pensare alle armi? Un mig atomico costa 800 milioni di dollari. Quanta gente si potrebbe sfamare con questa cifra? Persone vittime di terrorismi, di regimi dittatoriali, di violenze inaudite. È un tempo per cambiare e per ritornare al senso dell’uomo.
Il terrorismo, tra le sue diverse connotazioni, si avvale anche di un uso strumentale della fede, della religione. Come uscire da questa ambiguità?
Nelle società c’è anche la guerra tra gli dei, persino all’interno del monoteismo. Questo ricorda che abbiamo tutti paura dell’altro, cristiani, islamici e fedeli delle altre fedi. Esistono segni di inimicizia anche “senza bombe”: uno di questi è l’esistenza di una società di straricchi ed una di stra-poveri. Il povero che vive in mezzo ai ricchi è un nemico, impotente, e che non fa paura. È necessario vincere questa immagine del nemico che invece è un fratello da aiutare. Dobbiamo essere consapevoli che, in questo momento, o c’è un cambio della visione dell’uomo verso l’umanesimo o non c’è grande speranza, perché questa è una civiltà in agonia. È successo già altre volte nella storia. Siamo regrediti al dente per dente, a fare il male per sanare il male.
La società della paura, nata dopo l’11/9, si cambia con un nuovo umanesimo…
L’umanesimo non si fonda sulle leggi ma sui principi; è una distinzione che faceva Platone. I principi della vita sono il rispetto dell’altro, il senso della trascendenza che nasce dalle persone che non ci sono più, e aggiungo anche la fragilità. La fragilità, non il potere.
La mia fragilità legata ad un’altra fragilità crea forza. Questa è la risposta alla società della paura: capire che l’uomo è un essere fragile e che ha bisogno dell’altro.
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