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Sotto l'ombrellon

La spiaggia non è, come potrebbe pensare qualche ingenuo, una striscia di sabbia, più o meno profonda, che divide la terra dal mare, dandosi cambio, ogni tanto, con gli scogli. E’, piuttosto, un luogo provvisorio, ma complesso, dello scambio vacanziero fra il genere umano, nella sua variante occidentale, e il mare.

La spiaggia non è, come potrebbe pensare qualche ingenuo, una striscia di sabbia, più o meno profonda, che divide la terra dal mare, dandosi cambio, ogni tanto, con gli scogli. E’, piuttosto, un luogo provvisorio, ma complesso, dello scambio vacanziero fra il genere umano, nella sua variante occidentale, e il mare.
Le vacanze al mare sono un fenomeno recente. Cent’anni, o poco più. Prima i nobili si facevano costruire splendide ville in campagna, andavano a caccia, facevano colossali mangiate e bevute, magari scrivevano le loro memorie, ma nel Settecento a nessuno è venuto in mente di farsi costruire un villino a Ostia o a Lignano Pineta che allora si chiamava Cava zuzzerina, luoghi acquitrinosi e deserti. Non venitemi a dire che le coste italiane erano disabitate perché si temevano i pirati saraceni. Si erano estinti da un pezzo, probabilmente di malaria che, specie sulle coste, picchiava sodo. E meno che mai si paventavano le invasioni dei richiedenti asilo in arrivo sui barconi. Allora, semmai, erano i nostri avi a invadere le loro terre per colonizzarle e saccheggiare le risorse naturali.
Comunque mare e montagna vengono scoperti a fine Ottocento, per motivi salutistici, perché si pensava facessero bene. Sono vacanze borghesi di gente con qualche soldo da parte.
Mentre ai monti l’imperativo categorico è quello di scalare montagne, fare lunghe camminate, portare zaini, insomma, faticare molto, al mare basta star fermi, guardare la gente che passa, fare una nuotatina ogni tanto, sostanzialmente non fare nulla di speciale che richieda particolari abilità. La maggioranza degli italiani preferisce il mare.
Al mare ci si abbronza. E’ un’ovvietà, ma per secoli i ricchi erano bianchi, pallidi, pelle di luna, perché non avevano bisogno di lavorare la terra. I contadini invece, sempre curvi a zappare, erano scuri di pelle. Adesso contrordine, l’abbronzatura significa essere tosti, soprattutto aver fatto vacanze lunghe e non fantozziane, mentre i poveracci che lavorano in fabbrica sono bianchi e smunti.
Per abbronzarsi bisogna essere abbastanza spogliati anche perché il sole picchia. E questo comporta una differenza sostanziale perché in montagna le donne mettono giubotti, passamontagna, calzoni di frustagno o felpa o tuta.
In spiaggia siamo più succinti. Le bionde svedesi hanno portato in auge il bikini quando ancora da noi il vedere una vigile donna in divisa era il massimo dell’emancipazione e in chiesa non erano tollerate scollature e minigonne. Nei rotocalchi degli anni Sessanta prese corpo una certa visione voyerista della spiaggia, con le leggende metropolbalnerari su bionde nordiche facilmente abbordabili.
La spiaggia è molto più comoda dello scoglio che non è mai abbastanza grande e piatto per sdraiarsi. La sabbia pulita e non polverosa è un immenso materasso naturale dove ti puoi sdraiare e, contemporaneamente, un parco giochi per bambini. Per evitare che ciascuno si debba portare con fatica ombrelloni, sdraio e bottiglie d’acqua, sono stati inventati i bagni: città provvisorie di legno, dirette da un monarca illuminato, il bagnino, coadiuvato dalla sua famiglia, numerosa e abbronzatissima. Il bagnino issa la bandiera rossa e decide quando è pericoloso fare il bagno, il babbo dirige le eventuali operazioni di salvataggio da un trespolo come l’arbitro di tennis, affitta sedie a sdraio, cabine, capanni, pattini, tavoli di ping pong. Le carte da briscola e quelle da scala quaranta, la discoteca, le altalene. Come un albergo. Il bagno balnerare ha i suoi clienti fissi, ci sono bagni di lusso e bagni così così. Luoghi di moda e altri che per impalpabili motivi sono out. La bagnina madre gestisce il decoro dell’ambiente, i bambini fanno scherzi con l’acqua, i più grandi giocano col cellulare. Le signore sfogliano riviste di moda e di gossip e gli uomini parlano di calcio.
Lo stabilimento balneare è il luogo in cui è organizzata la convivenza delle varie tribù vacanziere. Se è vero infatti che al mare si può anche far niente, in verità tutti fanno qualche cosa. Ci sono i patiti dell’abbronzatura che si stendono e rimangono immobili a pancia in su come bistecche sulla brace. Ci sono i vari gruppi di ragazzi stratificati per età che circolano intorno ai bar spendendo i loro capitali in gelati. I salutisti fanno esercizi ginnici nel compatimento generale. Vengono dal bar intanto, come i coupier del casinò, gli assistenti del bagnino-capo, che volteggiano tra gli ombrelloni distribuendo chele di granchio fritto (surgelato dal Giappone), portano caffè freddi e acqua minerale. Spalmano gli abbronzanti in zone inaccessibili ma consentite.
Il sole splendente, il mare sconfinato, la sabbia bruciata dal sole ispirò molte canzoni. Chi non ricorda sapore di sale, scandalo al sole, abbronzatissima, ciao ciao mare, una rotonda sul mare, una estate al mare, nel segno di amori effimeri come dice la nota "Ho scritto t’amo sulla sabbia". C’era pure il proverbio Agosto, marito mio non ti conosco. Sottintende: al rientro ci si rivede.
Erano gli anni de "i vitelloni" e della dolce vita, gli anni del giovanilismo galoppannte in cui si confondevano le utopie e realtà, il cuore era uno zingaro. Amori balneari che finivano con un addio.
Già la prima pioggia d’agosto rinfresca il bosco. L’alba e i tramonti sono velati da nebbioline sospese. Ed eccoci ai rientri con lunghe file i caselli. I bei giorni di sole e di libertà restano negli scatti del cellulare.
Preparandoci a tornare nel chiuso di uffici, scuole e fabbriche canticchiamo con il duo Righeira: L’estate sta finendo, un anno se ne va. Son diventato grande e sai che non mi va!

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