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Alla scuola di San Benedetto

La famiglia non è un albergo, ma un noi

Alla scuola di San Benedetto

C’era una volta San Benedetto con le rondini sotto il tetto. Poi i tempi sono cambiati e i proverbi sono andati a farsi benedire. San Benedetto dal 21 marzo è stato trasferito al 3 luglio, in piena estate. E da quste parti i nidi di rondini sono scomparsi.
In ogni caso, San Benedetto, è sempre attuale con la sua bella regola che ci dà delle dritte sul come vivere sotto lo stesso tetto
La tradizione benedettina ha insegnato a generazioni di monaci come si svolge ordinatamente la vita in un monastero, come ci si parla, come ci si serve a vicenda, come si trattano gli oggetti, come si lavora e si studia, quando si fa silenzio. Tutte cose, a guardar bene, che riguardano non solo i chiostri ma anche la vita di quella piccola comunità che è la famiglia. Orari, comportamenti, linguaggio, abbigliamento; quante famiglie avrebbero bisogno di regole per ritrovare l’ordine perduto? Perchè oggi non è poi così scontato che ci si saluti quando si esce di casa, che non si giri in mutande per le stanze. Che si ceni senza la tv accesa, che ci si parli senza urlare, che dopo mangiato non ci si chiuda ciascuno nella propria camera.
L’antidoto al caos familiare può essere proprio la Regola che è riuscita per secoli a governare i monasteri. Potrebbe essere efficace anche nelle case? Ne è convinto Massimo Lapponi, docente di filosofia morale al Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo in "San Benedetto e la vita familiare" (Libreria editrice Fiorentina).
L’autore prova a stendere un piano di azione prendendo in esame la Regola e "traducendola" per padri, madri e figli.
Certo, ai più sembrerà un piano irrealistico o, per lo meno, troppo esigente. Sulla scia di San Benedetto, Lapponi reclama che, proprio come fanno i monaci, anche in casa ci si svegli presto la mattina per non indulgiare nella poltroneria; che tutti collaborino ai lavori domestici in modo che i figli imparino le virtù della carità. Della laboriosità, della pazienza e della cura. Grande attenzione ai tempi di riposo dopo la cena, se San Benedetto prescriveva letture spirituali, Lapponi si limita a chiedere di non accendere la tv a tutto vantaggio del dialogo, delle buone letture, del raccoglimento e, in genere, delle attività che ricreino lo spirito, ad attività creative o anche a cantare assieme o alla visione di qualche buon film o a qualche trasmissione che porti poi a discutere insieme. Niente giochi rumorosi e niente uscite esterne. E’ il momento prezioso in cui la famiglia diventa un noi, una comunità dove ci si rispetta ma si fanno anche delle cose interessanti che coinvolgono tutti.
A un’ora ragionevole tutti a dormire perché il sonno fa bene al corpo e allo spirito. Inutile dire cosa l’autore pensa di computer e videogiochi: saggezza e sobrietà sono le virtù raccomandate ai genitori quando consentono ai loro figli di immegersi nel mondo virtuale.
Ma è nell’attenzione alla casa in se stessa che si concentra in particolare l’autore. E’ facile capire come il monastero sia il centro del mondo di un monaco. Così la casa deve tornare ad essere il fulcro della vita di comunità della famiglia. Dunque le stanze devono essere accoglienti, calde, ben arredate pur nella sobrietà: luoghi in cui rifugiarsi, in cui si vive la propria vita fatta di relazioni umane vere, di attività ludiche, di lavoro creativo, di studio, di silenzio meditativo, di preghiera, di riposo dell’anima e del corpo.
Don Massimo Lapponi ha pensato anche a come diffondere la ricetta - che poi sua non è e nemmeno nuova - a partire proprio dalle famiglie degli oblati benedettini, i primi portabandiera di un nuovo "umanesimo familiare". I monasteri potrebbero aprirsi alle giovani coppie e ai fidanzati per far toccare con mano che le regole che fanno funzionare la vita comunitaria nei chiostri ben si prestano ad essere applicate nella vita di famiglia. E poi un sito internet, incontri e perfino una porta di stage pratico per i nuclei che fossero attirati dalla proposta.
Se il progetto di Lapponi (esigente, a dire il vero) si diffondesse, sarebbe una rivoluzione silenziosa ma determinante. Gruppi di famiglie e di parrocchie diventerebbero qualcosa di simile a un monastero in cui le persone diverse diventano un noi nell’epoca dell’individualismo esasperato, di chiusure su se stessi e di invadenze indebite, un bel baluardo contro l’anarchia e il caos nei rapporti nelle comunità piccole e grandi.

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