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Coronavirus, storie di perferie

Se n’è andato don Fausto Resmini, il prete dei poveri a Bergamo

Coronavirus, storie di perferie

Li ha coccolati fino all’ultimo respiro. Gli invisibili della società erano le sue creature, degne di tutte le premure. Don Fausto Resmini era per tutti il prete dei poveri. Volto sempre sorridente, uomo energico quando si trattava di inventare qualcosa per strappare dalla sofferenza chi chiedeva un aiuto: fondatore di una comunità di accoglienza nell’hinterland di Bergamo, una delle città più colpite dal caronavirus, cappellano del carcere, frequentatore assiduo della stazione, luogo dove cercava gli emarginati. Il camper che alcuni benefattori gli avevano regalato lo usava come mensa mobile per distribuire pasti a chi aveva fame. Il suo motto era quello di dare una speranza a tutti: non gli interessava chi fosse il suo interlocutore, o che cosa avesse fatto. A lui importava che ogni essere umano trovasse i valori fondamentali di un’esistenza dignitosa, senza distinzione né di razza né di credo religioso, cristiani e musulmani insieme, perché la vita non è mai un vuoto a perdere, ma un libro pieno di pagine da scrivere.
Perché propongo questa storia nella settimana di Pasqua? Ero intento a trovare qualche traccia di identità da tirare fuori dal lungo elenco di vittime del coronavirus. Tanti numeri utili per i bollettini statistici: una lunga Via Crucis. Tanti numeri che lasciano un groppo in gola: troppe sofferenze, troppi morti non accarezzati dalla pietà di un funerale. Eppure, sono frammenti di memorie da riconsegnare ai loro affetti. Nel silenzio, c’è la necessità di sentire il gorgogliare delle gocce di umanità in un mare di burocrazia. Quella di don Fausto è una vita che si inquadra pienamente nella sfida all’umanizzazione delle periferie, in una visione di Chiesa aperta, come quella incarnata da Papa Francesco: luoghi dove si addensano grumi di emarginazione sociale e di disperazione, tremende catene di montaggio che trasformano le disuguaglianze in esistenze “di scarto”. Ma le periferie possono anche essere intese come metafora che va oltre un concetto fisico-materiale. Sono fenomeni che tendono all’esclusione di persone dalla società a causa delle sue logiche di utilitarismo spietato. Trovano spazi immensi per la loro diffusione nel deserto dei sentimenti: portano alla morte del Prossimo e allo sgretolamento del senso di comunità. Nella corsa a perdifiato verso l’opulenza, gli invisibili sono i soggetti più deboli, quelli che non servono. Che non sono utili.
Il racconto di una vita vissuta accanto agli Ultimi offre un’eredità utile per la ricostruzione di un tessuto sociale devastato. Alle vecchie povertà, che non possono essere dimenticate, si aggiungeranno quelle causate dal coronavirus, molte delle quali saranno segnate da situazioni di disperazione sommersa, quindi più difficili da cogliere. Occorreranno maggiori sensibilità e una rete più estesa di interventi nel territorio per sviluppare un sistema integrato tra istituzioni pubbliche e associazioni di volontariato. Chi non ha mai chiesto nulla troverà difficoltà a farlo ora. Soprattutto dalle nostre parti, il bisogno fa vergognare. La tendenza è di tenere tutto dentro. La sfida sarà quella di intercettare le condizioni esasperate di povertà, prima che uccidano i più fragili.

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